Il 15 luglio un portavoce della presidenza irachena ha reso noto che il presidente Fuad Ma’sum aveva appena ratificato 42 condanne a morte. Secondo il codice di procedura penale, una volta che una condanna a morte sia stata confermata dalla Corte di cassazione, l’ultima parola spetta al presidente, che può dare via libera all’esecuzione oppure commutare la sentenza o graziare il condannato.
Non è certo che l’annuncio del 15 luglio corrisponda al vero. Di sicuro, da oltre un mese il presidente Ma’sum riceve forti pressioni perché risolva l’arretrato di condanne a morte in attesa di ratifica, almeno 662 secondo dati ufficiali, imposte dal 2006. Il 16 giugno, nel tentativo di rendere più veloce la procedura, il parlamento di Baghdad ha approvato un emendamento al codice di procedura penale che prevede il passaggio della decisione finale al ministro dell’Interno se il presidente non si pronunci entro 30 giorni.
Di certo, tra le centinaia di condannati a morte in attesa di esecuzione, vi sono responsabili di gravissimi attacchi contro i civili, una piaga che colpisce la popolazione irachena da oltre 10 anni. In gran parte, i condannati alla pena capitale sono musulmani sunniti, giudicati ai sensi della Legge antiterrorismo del 2005.
Il clima d’insicurezza e, non di rado di vero, e proprio terrore, non dovrebbe secondo Amnesty International essere usato per giustificare l’uso massiccio della pena di morte (la cui efficacia, oltretutto, in contesti di violenza politica e settaria, sarebbe assai improbabile) e per velocizzare la procedura. Oltretutto, i processi che si concludono con una condanna a morte sono tutto meno che equi e regolari. Nel corso degli anni, Amnesty International ha raccolto prove e testimonianze di “confessioni” estorte con la tortura durante gli interrogatori, a volte persino rese in diretta tv, e invano ritrattate in tribunale. Molti avvocati difensori sono stati minacciati, intimiditi e arrestati.
Per queste ragioni, Amnesty International ha chiesto al presidente Ma’sum di non procedere a ratificare alcuna condanna a morte e lo ha esortato a contrastare il terrorismo con gli strumenti del diritto e non con una giustizia sommaria che sembra nient’altro che una rappresaglia.