Incresciosa e inquietante la vicenda della proposta di legge del governo sulla Rai, la n.1880. Varata nei giorni scorsi dalla commissione lavori pubblici e comunicazioni del Senato, potrebbe approdare nei prossimi giorni in aula. Dove potrebbe essere approvata nel silenzio generale in poche ore, per poi passare in seconda lettura alla Camera dei deputati. Per chiudere la pratica. Si tratta di un caso di scuola, cinico e terribile nelle conseguenze, ben rappresentativo della situazione politica attuale. Per un verso la conquista delle leve del comando –tramite la figura dell’amministratore delegato- da parte del governo; per un altro l’”inciucio” consociativo con Forza Italia, essendo riuscita quest’ultima ad ottenere che il futuro presidente del servizio pubblico venga deciso con i due terzi dei voti della commissione parlamentare di vigilanza (emendamento 2.109 a firma Gasparri e Minzolini) e (testo cambiato ad hoc dai relatori Buemi e Ranucci) che i direttori di testata abbiano bisogno di altrettanto perimetro di consenso ne consiglio di amministrazione. Insomma, la destra si è assicurato il diritto di veto sui nomi e influirà enormemente sulla scelta del presidente. Quindi, un amministratore delegato voluto dal premier e un presidente gradito al mondo berlusconiano. Alla faccia di conflitti di interessi e della concorrenza di mercato. La Rai sarà a sovranità limitata –e già terza nei ricavi dopo Sky e Mediaset- dovendo badare a non disturbare due manovratori: l’esecutivo e Mediaset. Si leggono nomi…..Chissà perché “5Stelle” ha votato il mandato ai relatori. Svista? Tra l’altro, I progetti di legge depositati a suo tempo proprio da “5Stelle” e da Sel-Civati sono di grande interesse. Ma nessuno degli emendamenti tratti da quei testi è passato.
Purtroppo, non si può dar torto allo stesso Gasparri, quando sottolinea che l’odierno articolato altro non è che la prosecuzione un po’ aggiornata della vecchia legge 112 del 2004 –poi sussunta dal Testo Unico del 2005- a sua firma. Infatti, l’unica significativa variante sta nel numero dei consiglieri, che passano da nove a sette, mentre l’indicazione “via i partiti” rimane un patetico slogan. Tra l’altro, gli stessi poteri dell’amministratore delegato sono sì accorpati in un’unica figura, ma già oggi –dopo i cambiamenti dello statuto della società- stanno in capo a presidente e direttore generale ben maggiori funzioni del passato. La commissione di vigilanza rimane a dispetto dei santi, pur essendo pressoché unanimemente considerata un’istituzione obsoleta, essendo espressione della stagione monopolistica. Servirebbe, se mai, una commissione bicamerale sulla società dell’informazione, cui riferire competenze sparpagliate e spesso non coordinate.
Insomma, il governo Renzi sta facendo una controriforma, in odore di incostituzionalità, essendo stata costante negli anni la giurisprudenza della Corte volta ad attribuire l’indirizzo sul servizio pubblico al parlamento e non a palazzo Chigi. Non può passare sotto silenzio. Perché non cresce la mobilitazione contro un testo non meno grave del “Jobs Act” o della “Buona scuola”? Il servizio pubblico rischia di perdere definitivamente la sua fisionomia e –come ha detto l’interprete “autentico” Gasparri- potrebbe essere privatizzato. Magari a pezzi. Tra l’altro, alla vigilia del rinnovo della concessione con lo Stato, in scadenza il prossimo maggio. Sarebbe l’eccezione continentale, finendo ad essere sotto l’egida di un governo.
Non è giusto che tutto ciò non provochi sdegno e iniziative di massa. Ci attendiamo che nelle prossime ore –come hanno annunciato il “MoveOn” e “Articolo21”- si apra un intenso periodo di lotta e di mobilitazione. E’ in gioco un momento cruciale della democrazia italiana.