In Egitto è stata promulgata una nuova legislazione antiterrorismo dal governo Al Sisi, che prevede tra le nuove norme un minimo di due anni anni di prigione se si diffondono: “Informazioni che contrastano con la versione ufficiale dei fatti in merito ad attacchi terroristici”. Alla nuova legge, che dovrà essere ratificata dal parlamento, e che impone anche l’uso di una determinata terminologia in cui si vieta ai media internazionali presenti nel paese di usare definizioni come: “Stato Islamico”, “Isis”, “islamista” o “fondamentalista”, si oppone il sindacato dei giornalisti, che la vive come una ulteriore restrizione ai diritti umani e di libertà d’espressione e una chiara violazione dell’articolo 33 della costituzione in cui si afferma che: “Nessun reato di stampa può essere punito con la prigione”.
Secondo Ahmed el Zind, il ministro della giustizia: “Il governo ha il dovere di difendere i suoi cittadini dalle informazioni sbagliate. Spero che nessuno lo interpreti come una restrizione alla libertà dei giornalisti”.
In realtà la scelta di adottare la censura per contrastare il terrorismo sembra ancora una volta figlia della paura e dell’oscurantismo, il barbaramente noto “attentato al pensiero”, che immancabilmente torna celandosi dietro la sete di ordine e di giustizia.
Limitare la libertà di stampa non può in alcun modo facilitare la lotta contro la violenza degli estremisti, come scriveva Stanislaw Jerzy Lec: “Orribile è il bavaglio spalmato di miele”.