Salutare vaccino contro le ricadute nostalgiche per il perduto paradiso sovietico, è uscito presso Adelphi “Il defunto odiava i pettegolezzi”. E’ un’inchiesta – saggio in forma di romanzo – sulla morte per suicidio di Vladimir Vladimirovič Majakovskij, il celebre poeta della Rivoluzione di Ottobre; un gigante in tutti i sensi, a iniziare dalla statura, che ad appena trentasette anni pose termine alla propria esistenza sparandosi per amore un colpo al petto. Con una Mauser. No, con una Browning. Anzi con una Bayard. Si avanzò anche l’ipotesi di una ‘roulette ussara’, ribattezzata universalmente Russian Roulette.
Ma le armi menzionate non sono revolver a tamburo bensì pistole semiautomatiche; se qualcuno inserisce una sola munizione nel caricatore, non appena ‘scarrella’ il colpo viene caricato e l’ultima pallottola inserita è la prima ad uscire. Lili Brick, amante storica del poeta, affermò che Vladimir aveva tolto il caricatore e lasciato una pallottola in canna. Non corrisponde a verità, una Mauser senza caricatore non può sparare perché il grilletto è bloccato. La maliarda cercava di accreditare lo scenario di un gioco pericoloso: “Si è sparato come un giocatore. Conoscendolo, sono convinta che si è affidato alla sorte pensando:”Se non è destino ch’io muoia, farà nuovamente cilecca e resterò vivo”. Veronika Polonskaja, l’amante in carica di appena 22 anni, un’attrice avvenente sposata con il collega di teatro Janšin (consenziente? un ménage à trois?) a causa della quale lo scrittore avrebbe commesso il gesto insano, testimoniò di aver visto una nuvoletta di fumo rientrando precipitosamente nella stanza dopo aver udito lo sparo. Impossibile, le armi semiautomatiche “usano cartucce caricate con polveri che non danno luogo a formazione di fumo come quando, un tempo, si utilizzava la polvere nera”.
Delle tre pistole, nei verbali della polizia segreta vengono confusi (intenzionalmente?) i numeri di matricola. Inoltre le trascrizioni sulle circostanze della morte presentano discordanze macroscopiche: il foro di entrata della pallottola calibro 7,65 è situato tre centimetri sopra il capezzolo sinistro, con fuoriuscita a destra in basso sulla schiena. E allora perché si parla di direzione da destra a sinistra? Intorno alla morte violenta del poeta Serena Vitale, allevata alla sottigliezza di Angelo Maria Ripellino, principe degli slavisti, sgomitola con il talento della provetta narratrice, e la tenacia di una parca, il mistero che incombe sul caso Majakovskij, ricostruendo da implacabile studiosa (sono ben 31 le pagine dedicate alla fonti) l’epoca, il milieu, il clima di terrore e di sospetto, la corruzione, le risse, gli incontri, e infine gli amori romantici e sentimentali incompatibili con la nuova morale rivoluzionaria. Vladimir si firmava “Cucciolo” nei biglietti passionali, e confessava l’ammirazione per i versi d’amore di un autentico virtuoso come Pasternak, amico di gioventù. Personaggio scomodo e ingombrante, quattro mesi prima della scomparsa avvenuta nel 1930, inviato a Parigi al Convegno degli scrittori antifascisti in difesa della pace, aveva tuonato: “Non organizzatevi. L’organizzazione è la morte dell’arte. Conta solo la libertà individuale”.
Stalin diplomaticamente riprese a esaltarlo solo alcuni anni dopo il drammatico congedo: “Majakovskij era e resta il migliore, il più dotato poeta della nostra epoca Sovietica. L’indifferenza nei confronti della sua memoria e delle sue opere è un delitto…”. Da morto Vladimir era ritornato l’intoccabile vate del regime, il cantore insuperato della classe operaia: “Mangia ananassi, ingolla maionese!// Il tuo ultimo giorno si appressa, borghese!” Martellatore di versi che traducono in parole la pittura e la scultura enfatica del realismo socialista, Majakovskij era anche il geniale forgiatore di estrosi arcobaleni linguistici: magniloquente, esagerato, fuori misura in tutto, irrefrenabile, persino futurista, ma sempre innegabilmente poeta. E aveva regalato ai suoi contemporanei immagini folgoranti, non soltanto a beneficio dell’utopia comunista. Certo a Mosca era un privilegiato, possedeva una casa in comune ma uno studio solo per sé, e disponeva anche di un’automobile. Le comodità non gli mancavano, né i bei vestiti, né le scarpe su misura acquistate a Parigi, né le forniture di champagne per i festini con gli amici.
Godeva di libertà di movimento, aveva viaggiato in America, e la sua vita privata era assai agitata per non dire sregolata; condizione che gli creava intorno invidie e non pochi nemici, in tempi in cui bastava una delazione per sparire da un giorno all’altro o per andare incontro al plotone di esecuzione. Molti altri poeti e intellettuali erano già usciti cruentemente di scena, ed egli stesso viveva nell’ansia di cadere in disgrazia, che su lui scendesse il silenzio: niente inviti a declamare poesie in pubblico, condannato alla morte civile anticamera dell’eliminazione fisica. Eppure finché tuonava i suoi versi era una forza della natura, troneggiava incontrastato. Scintillanti sono le sue risposte al calor bianco. Una signorina esaltata urla dal pubblico: “Majakovskij, siete schiavo dell’oggi, l’eternità non è nel vostro destino!” “Ripassate tra mille anni, ne riparleremo”. Un giovanottino baldanzoso: “Ma davvero pensate che siamo tutti idioti?” “Perché ‘tutti’? Per ora ne vedo uno solo”. “Avete detto che tra i georgiani vi sentite georgiano e russo tra i russi. E chi sentite di essere tra i cretini?” “Mi ci trovo per la prima volta”. Un ometto grasso: “Un poeta di genio, trattare così male il pubblico… E poi sempre ‘io, io, io’. Lo sapete bene che dal sublime al ridicolo non c’è che un passo”. Il gigante misurando con gli occhi la distanza tra sé e l’altro: “Anche meno, credo”. “Majakovskij, la vostra ultima poesia è troppo lunga!” “E voi tagliatela. Con quello che avanza potrete farvi un nome…”
La tragedia di Valdimir Vladimirovič si consuma in tre giorni, fra il 12 e il 14 aprile: l’uomo che si descriveva come “una nuvola in calzoni” si tira un colpo al cuore perché l’amante indugia a lasciare il marito per lui? Suvvia!, d’amore si muore, ma con lo zampino della Čeka. Leggere per credere.