Non si può non essere d’accordo con quanti mettono in evidenza la necessità di creare un’economia circolare che chiuda i suoi cicli produttivi, superando così la cosiddetta economia lineare, cioè la logica in base alla quale i prodotti, una volta usati, finiscono in gran parte nelle discariche. In questo processo resta però ancora aperto il problema relativo a quali debbano essere gli interlocutori dell’indispensabile cambiamento necessario per la riconversione ecologica della nostra economia. Il rischio infatti è quello di ammantare di verde i nuovi affari per i soliti speculatori, affaristi e a volte mafiosi. Esistono in questo caso vari esempi di aziende “green” in realtà espressione della medesima cultura del rifiuto, dello spreco e della speculazione.
Recentemente, Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera, prendendo spunto dall’attività di un’ottima azienda marchigiana che ricicla elettrodomestici usati, porta l’esempio di come si fa economia circolare citando il report “Waste End” realizzato da Symbola e Kinexia. Quest’ultima società dice poco o nulla ai non addetti ai lavori. Da qualche anno si è specializzata in energie alternative, in particolare nel settore fotovoltaico, arrivando ad essere quotata alla Borsa di Milano. Il suo Presidente e Amministratore Delegato è Pietro Colucci, dell’omonima famiglia già socia del Comune di Latina, tale “Latina Ambiente”, fin dal 1997. Una società sostanzialmente dichiarata fallita dal Consiglio comunale di Latina nei giorni scorsi a causa di giganteschi debiti di bilancio. Debiti in buona parte derivati dalla partecipata Ecoambiente Srl (gestore della seconda discarica di Borgo Montello a Latina), dove insieme ai Colucci, il Comune si trova socio Manlio Cerroni: “l’ottavo Re di Roma”. Inoltre, uno dei due Vice Presidenti di Kinexia è Marco Fiorentino che ha fatto carriera proprio come Amministratore Delegato di Latina Ambiente, nonché iniziale componente del CdA di Idrolatina Srl, la società che all’inizio della sua impopolare gestione raggruppava tutti i soci privati di Acqualatina. In quest’altra società tutti i Colucci (Pietro più i cugini Francesco e Nicola), almeno nella fase iniziale, erano soci dei fratelli Pisante e dei francesi di Veolia: cioè di noti gestori di impianti di smaltimento di rifiuti che hanno avuto parecchi problemi con la giustizia.
Kinexia, sempre nel capoluogo pontino, attraverso una controllata, ha realizzato un gigantesco impianto fotovoltaico a Borgo Sabotino su una superficie agricola di circa 40 ettari. Un intervento analogo è stato attuato dalla stessa società nel Comune di Aprilia. Ognuno fa il suo mestiere e gli ex imprenditori del ciclo dei rifiuti originari di San Giorgio a Cremano (NA), anche se già segnalati nella famosa relazione sugli assetti delle società operanti nel settore dell’immondizia dall’apposita Commissione parlamentare d’inchiesta (relazione n. 40 trasmessa alle Camere il 6 aprile 2000), hanno tutto il diritto di dedicarsi ad altre attività.
Certo, fino a quattro anni fa, affittare terreni agricoli per realizzare mega-impianti fotovoltaici era un grandissimo affare: vennero anche imprese dalla Germania e dalla Spagna a spartirsi una torta che doveva servire ad incentivare soprattutto i piccoli impianti sui tetti della case. L’affare durerà per molto tempo, visto che tali incentivi sono programmati per durare 20 anni.
Non sembra quindi che gli interlocutori indicati da Realacci per attuare una economia circolare siano adeguati. Magari potranno esserlo su come “abbattere in cinque anni due terzi dei rifiuti avviati in discarica” (e nei cosiddetti termovalorizzatori, aggiungiamo noi), visto che sono gli stessi che da sempre gestiscono impianti di trattamento dei rifiuti. Il cuore del business infatti sta proprio nel fatto che i rifiuti devono comunque continuare ad essere prodotti, mentre la loro gestione, in un modo o nell’altro, deve restare in mano a tali gruppi. Che ciò avvenga con impianti di riciclaggio o in altre forme ha poca importanza. Ma non è questo quello che si intende per “rifiuti zero”: almeno nella concezione in cui l’ha formulata il suo ideatore Paul Connett. Il professore americano ci spiega infatti che con tale accezione si intende un processo virtuoso che coinvolge produttori, consumatori e istituzioni verso un obiettivo in cui i rifiuti non devono più esistere in futuro. I beni di consumo devono essere progettati in modo da essere sempre riutilizzabili e riparabili: “zero waste” infatti, a proposito di inglesismi, è la definizione giusta. Per questo la traduzione esatta è “zero rifiuti”, non “rifiuti zero”. Esattamente come per “green economy” si deve intendere un’economia realmente fondata sui cicli chiusi della natura, non su quella genericamente “riverniciata” di verde.