di Moira Fusco
I dati Istat segnalano che negli ultimi cinque anni la percentuale di donne vittime si è abbassata di due punti, passando dal 13,3 all’11,3%, ma questi numeri vanno visti in controluce, disaggregando il dato: e così si scopre che sono aumentate, e notevolmente, le violenze più gravi, ovvero, quelle violenze dove sono state riscontrate più ferite nel corpo. Sono aumentate di quasi 15 punti percentuali, dal 26,3 al 40,2%. Però sono aumentate anche le donne che prendono coraggio: è aumentata dal 67 al 75 la percentuale delle donne che parlano con qualcuno della violenza subita.
È cresciuto il numero di donne che cerca aiuto presso i servizi specializzati, i Centri Antiviolenza, gli sportelli.
La violenza di genere affonda le proprie radici in un modello culturale non ancora superato, che si alimenta e si riconduce a una disparità di ruoli dettati dal genere, a stereotipi anacronistici, tramandati di generazione, in generazione, eppure di così difficile sradicamento. Le battaglie femministe iniziate nel lontano Ottocento, che avevano portato all’attenzione le dinamiche di oppressione di genere, rivendicando una necessaria e universale parità di diritti e dignità, riecheggiano ancora oggi, quando si parla di auspicato rinnovamento culturale, di una rivoluzione sociale necessaria a smuovere quel fondo di immobilità di pregiudizi che impregna le relazioni uomo-donna, dilagando ed estendendosi a vari ambiti, a cominciare da quello più intimo, familiare, fino a giungere a quello lavorativo e a diversificati contesti pubblici.
La violenza di genere si annida e scivola sottilmente all’interno delle relazioni affettive. La letteratura internazionale parla di Verbal Abuse, Emotional Abuse e Financial Abuse, riferendosi alle dinamiche quotidiane, intrafamiliari in cui si manifesta un’asimmetria di potere, che sconfina o può sconfinare in gravi situazioni di limitazione, controllo e svalorizzazione del partner, fino ad arrivare a vere e proprie minacce e intimidazioni.
Se è vero, come dimostra l’ultimo Rapporto Istat 2015, che è cresciuto il numero di donne che cerca aiuto presso i Centri Antiviolenza, è anche vero che per queste donne rimane un passaggio non semplice, che attiene alla consapevolizzazione del ciclo della violenza in cui sono coinvolte per uscirne davvero. In questo senso a queste donne viene chiesto molto: è richiesta forza e spesso “freddezza” nel riconoscere, e in un’ultima analisi, assegnare un nome a tale vissuto devastante, agito, come le statistiche dimostrano nella maggior parte dei casi, dal proprio partner, lo stesso nel quale tanto avevano precedentemente investito.
In questo delicato passaggio sono chiamate in causa in primis le operatrici dei Centri Antiviolenza e le interlocutrici e gli interlocutori che rientrano a vario titolo negli interventi di prevenzione, sensibilizzazione e contrasto al fenomeno: è richiesta attenzione profonda, sensibilità e professionalità nell’approccio con le donne per evitare, tra i vari rischi, che subiscano il deleterio processo di “vittimizzazione secondaria”.
Sensibilità e “approccio di genere” richiamano quei mutamenti culturali che devono partire innanzitutto dalle operatrici, dalle Istituzioni e da tutti i soggetti che si approcciano al fenomeno della violenza contro le donne, le cui azioni di contrasto risultano ancora deficitarie: un gap profondo è stato individuato proprio nel Piano straordinario contro la violenza sessuale e le vittime (art.5 della Legge n.119 del 2013), presentato dal Governo lo scorso 7 maggio in Conferenza Stato-Regioni econtestato da numerosi Centri Antiviolenza e Associazioni che l’hanno giudicato “un’occasione storica persa di cambiamento”, poiché in esso il ruolo dei Centri Antiviolenza ne esce svuotato, essendo considerati “alla stregua di qualsiasi altro soggetto del privato sociale, senza alcun ruolo, se non quello di meri esecutori di un servizio”. Sorvolando sugli aspetti inerenti il sistema di governance delineato dal Piano, l’impostazione risulta essere, complessivamente, di tipo “sanitario-securitario” e le donne considerate “soggetti da prendere in carico”, in evidente contraddizione con le premesse che parlano della necessità di empowerment e con l’irrinunciabile autodeterminazione.
Ancora non ci si è resi conto, dunque, di quanto non sia sufficiente che una donna si rivolga al pronto soccorso o sporga denuncia per uscire dal proprio vissuto di violenza. C’è bisogno invece di luoghi in cui le donne vengano accolte, si sentano realmente ascoltate e finalmente riconosciute in tutto il vissuto complesso che a fatica esse portano. Occorre capacità di comprensione e ascolto che muove dalla professionalità etica e dall’onestà di ogni singola operatrice, tenuta a sradicare schemi concettuali acquisiti per non incorrere in “interpretazioni” arbitrarie e contaminate di un sentire che non rispecchia quello espresso dalle donne in tutti i suoi svariati significati.
La sfida è ardua e implica un altro passaggio obbligato, seppure ancora poco riconosciuto, vale a dire un uso corretto del linguaggio, un linguaggio che sia anch’esso “di genere”. Al di là di ogni rivendicazione o estremismo esasperato, il valore del linguaggio e l’importanza di adottarlo si rifà alla funzione propriamente semantica di esso, ovvero alla capacità di assegnare non solo un nome alle cose, ma di significare mondi e relazioni: è proprio in quest’attribuzione libera di significati che si disegnano, si negoziano o si negano anche rapporti, condizioni di uguaglianza (implicite), conferme e disconferme sociali. La negazione di declinazione al femminile per numerose professioni continua a veicolare asimmetria di ruoli, rispecchiando una forma mentis colma di retaggi culturali difficili da cancellare.
Gli argomenti e i rimandi alle questioni culturali sono infiniti: rimane da riflettere sul perché si arresti una rivoluzione sociale che apre ad un grado più alto di civiltà, evidentemente, allo stato attuale quasi del tutto assente.
Viene da interrogarsi sulla percezione reale del substrato che si annida nel fenomeno della violenza contro le donne, un problema definito endemico dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che tanto ancora continua a fare discutere.
E allora quali direzioni da prendere? Si rimanda risposta alla sensibilità e alla responsabilità di chi possiede il potere decisionale, nella speranza che quei vissuti, quelle storie di donne e quelle vite pregne di coraggio e solitudine, non vadano perse nella panacea di soluzioni che lasciano il tempo che trovano, cavalcando entusiasmi del momento, destinati a cedere il passo repentinamente ad argomenti che fanno pari notizia e scalpore.