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Tunisia ancora vittima delle proprie contraddizioni interne

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Disuguaglianza strutturale e mancata inclusione dei giovani nel mondo del lavoro: terreno fertile al richiamo delle sirene jihadiste.

Articolo di: NEAR EAST NEWS AGENCY

E’ giunta la rivendicazione che in molti attendevano: a poche ore dall’assunzione di responsabilità per l’attacco alla moschea sciita di al-Imam al-Sadeq, a Kuwait City (almeno 27 morti), nella serata di ieri l’Isis ha raddoppiato. Su Twitter il gruppo islamista ha rivendicato l’attacco alla spiaggia tunisina di Sousse: le vittime, si legge nel messaggio, “sono membri di Stati che fanno parte di un’alleanza crociata che combatte il califfato”.

Un uomo armato di kalashnikov ha aperto il fuoco contro i turisti che si trovavano nella spiaggia del resort Riu Imperial Marhaba, nella nota località di Port el Kantaoui. Trentanove morti, tra cui anche l’attentatore, identificato dallo stesso Stato Islamico con il nome di Abu Yahya al-Qayrawani. Secondo quanto riportato dal segretario di Stato tunisino, Rafik Chelly, al-Qayrawani era uno studente tunisino sconosciuto alle autorità.

Come successo al museo del Bardo a Tunisi, lo scorso 18 marzo, anche stavolta la maggior parte delle vittime sono turisti stranieri: quattro britannici (“il numero più elevato”, ha detto il premier tunisino Habib Essid) e poi tedeschi, belgi e un francese.

Immediata è stata la reazione delle istituzioni tunisine, appena uscite da elezioni nazionali che hanno sostituito la fazione islamista vicina alla Fratellanza Musulmana, Ennahda, e consegnato il potere a Nidaa Tounis e ai simboli del regime pre-rivoluzione. E se gli islamisti si sono ritrovati in mano alcuni dicasteri e la chance di condividere il potere nel paese, il primo ministro Essid e il presidente Essebsi sembrano fantasmi tornato dal passato targato Ben Ali.

Già stamattina il premier Essid ha annunciato di voler richiamare le truppe di riserva per rafforzare al sicurezza “nei luoghi sensibili e in quelli che potrebbero essere target di attacchi terroristici”, “un piano eccezionale per garantire la sicurezza dei turisti e dei siti archeologici e che prevedrà il dispiegamento di ufficiali armati lungo la costa e dentro gli hotel a partire dal primo luglio”.

Non solo: a settembre si terrà – ha detto Essid – un congresso nazionale anti-terrorismo, ricompense saranno consegnate a chiunque dia informazioni relative a potenziali terroristi e 80 moschee (i cui imam sono accusati di incitare al terrorismo e di reclutare nuovi adepti da inviare in Siria e Iraq) saranno chiuse in una settimana. Moschee, spiega Essid, che “continuano a fare propaganda e a promuovere il terrorismo”.

L’obiettivo è chiaro: salvaguardare l’immagine della Tunisia che ha nel turismo una delle principali voci di entrata economica (il 7% del Pil, ma pari al 15% prima del 2011), con 400mila posti di lavoro diretti e dell’indotto. E salvaguardare l’immagine di un paese usato come modello riuscito delle primavere arabe, il solo ad approdare ad un sistema democratico più completo e vicino agli imposti modelli occidentali, lontano dalla guerra civile libica e dall’autoritarismo egiziano. A guardare bene però la situazione sul terreno è ben diversa: il nuovo governo è lo specchio del vecchio regime di Ben Alì e molte delle mancanze che spinsero i tunisini in strada per rovesciare il dittatore sono ancora presenti (disoccupazione giovanile oltre il 30%, disuguaglianz strutturale tra nord e sud, corruzione diffusa all’interno delle istituzioni statali).

Così la Tunisia è diventata il principale esportatore di nuovi jihadisti verso Siria e Iraq, nuove reclute per il califfo al-Baghdadi: circa 3mila, secondo i servizi segreti internazionali, spesso addestrati in Libia e poi rientrati in Tunisia – dopo l’esperienza siriana – pronti a dare vita a nuove cellule del califfato. Tremila persone, spesso giovani sotto i 30 anni, come l’attentatore di ieri, Abu Yahya al-Qayrawani.

Le partenze, verso l’estero, sono dettate dalla quasi totale assenza di settarismi interni al paese – a differenza di un paese come l’Iraq – e alla cultura tradizionale della società, tendenzialmente laica (anche a causa del pugno duro di Ben Alì, che attraverso una struttura di servizi segreti radicata e potentissima ha avuto come target i movimenti islamisti interni).

In Tunisia a fare da acceleratore al jihadismo è la ricerca di un’identità altra, figlia delle frustrazioni che molti giovani vivono in un paese ancora poco egualitario.

Da Perlapace


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