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Sulla condanna a morte dell’attentatore di Boston

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di Jenn Lindsay

Dzhokhar Tsarnaev, l’attentatore della maratona di Boston del 15 aprile 2013, è stato condannato a morte lo scorso 15 maggio. In quell’attentato erano morte tre persone: Krystle Campbell (29 anni), Lu Lingzi (23 anni), e Martin Richard (8 anni). Tsarnaev e suo fratello maggiore Tamerlan Tsarnaev (poi morto in uno scontro a fuoco con la polizia) avevano collocato una «pentola-bomba» in mezzo agli spettatori della maratona; una quarta vittima, Sean Collier (27 anni), addetto alla sicurezza presso il Massachusetts Institute of Technology, è stato ucciso nell’inseguimento dei due fratelli. Più di 240 altre persone sono rimaste ferite, alcune delle quali in modo grave. L’8 aprile Tsarnaev è stato condannato per una trentina di capi d’accusa, 17 dei quali reati capitali. La giuria ha ritenuto che la morte fosse la punizione adeguata per sei di questi 17 capi.
Negli Stati Uniti, l’applicabilità della pena di morte è decisa Stato per Stato. Il Massachusetts (dove è stato commesso il reato) non la prevede e non esegue sentenze di morte da quasi 68 anni. Secondo il Death Penalty Information Center, sono 1408 le persone giustiziate negli Stati Uniti dal 1976 a oggi. Gli Stati Uniti sono uno dei 22 paesi del mondo – e l’unico del continente americano – ad aver eseguito sentenze di morte nel 2014.
I pubblici ministeri sono stati così abili da far diventare quello di Tsarnaev un caso da affrontare a livello federale (così da poter richiedere la pena di morte, aggirando il fatto che lo Stato del Massachusetts non la prevede) sia a causa dell’arma utilizzata (una bomba) sia per il movente: terrorismo anti-americano. Molte delle accuse contro di lui, infatti, come ad esempio l’uso di un’arma di distruzione di massa, sono reati federali, su cui le corti federali hanno competenza esclusiva.
Per poter essere ammessi a occuparsi del caso, i giurati hanno dovuto dichiarare che non si oppongono alla pena di morte e che sarebbero disposti a infliggerla. Alla giuria è stato chiesto di deliberare su due tipi di fattori: aggravanti e attenuanti. Fattori aggravanti sono la nefandezza del crimine, la vulnerabilità e l’età delle vittime, il numero delle vittime, l’uso di armi di distruzione di massa e la presenza della premeditazione. Si tratta di fattori aggravanti che devono essere provati al di là di ogni ragionevole dubbio e concordati all’unanimità da una giuria. Ma i fattori mitiganti sono più discutibili, meno oggettivi. Nel caso di Tsarnaev i fattori attenuanti includono: l’età di Tsarnaev al momento del reato (19 anni), la sua mancanza di condanne, la possibile influenza di suo fratello maggiore Tamerlan, le testimonianze di amici e insegnanti (secondo i quali il suo comportamento fino a quel momento non faceva immaginare niente di simile), la presenza di influenze negative nella sua famiglia, e il rimorso dell’imputato per il crimine commesso.
La giuria ha impiegato più di 14 ore, nel corso di tre giorni, prima di raggiungere una decisione, all’unanimità. Se anche un solo membro della giuria non fosse stato d’accordo, la pena sarebbe stata automaticamente commutata in ergastolo.
I giurati scelti, nella loro volontà di prendere in considerazione la pena di morte, non erano rappresentativi della popolazione di Boston in generale. Un sondaggio condotto dalla stazione radio di Boston Wbur mostra che solo il 31% dei residenti nell’area di Boston ha dichiarato di essere favorevole alla pena di morte per Tsarnaev. Un sostegno che scende ulteriormente, fino al 26%, se si considera la sola città di Boston.
Un sondaggio nazionale dell’Università di Quinnipiac ha rilevato che gli americani in generale hanno opinioni differenziate sulla pena di morte in base al tipo di reato. Il 43% sostiene la pena di morte per i colpevoli di omicidio, ma il 58% sostiene che una persona condannata per omicidio durante un atto terroristico dovrebbe ricevere la pena di morte. Nel caso di Tsarnaev, il 62% degli americani presi nel loro complesso sostengono che debba essere condannato a morte. Quindi il 62% degli americani, ma solo il 26% dei bostoniani: deve essere stato difficile individuare solo giurati disposti ad applicare la pena di morte. La loro propensione li allontana a tal punto dalla stragrande maggioranza dei loro concittadini che è inevitabile porsi questa domanda: quanto la loro inclinazione di partenza sull’argomento pena di morte ha influenzato l’esito finale del processo?
La condanna di Tsarnaev ha scatenato un grande dibattito sulla pena di morte nei forum culturali americani. Una settimana prima del processo, i vescovi cattolici del Massachusetts hanno rilasciato una dichiarazione citando papa Francesco, che descriveva la pena di morte come «un’offesa contro la dignità della persona umana». Su «Il Federalista», una rivista culturale e filosofica online, alcuni scrittori hanno utilizzato gli insegnamenti cattolici a favore e contro la sentenza di Tsarnaev. In un post dal titolo «Uccidere Tsarnaev non serve a niente», Daniel Payne scrive che il caso di Tsarnaev non soddisfa nessuno dei criteri della Chiesa cattolica per definire giustificata un’esecuzione e afferma inoltre che la pena di morte è moralmente discutibile, ingiustificata alla luce delle circostanze, e non può veramente soddisfare i desideri di punizione espressi dalla popolazione. Scrivendo «Il caso morale per far fuori Tsarnaev», Neal Dewing prende la posizione opposta: dal punto di vista della Chiesa cattolica, si può effettivamente dire che con le sue azioni un criminale come Tsarnaev abbia commesso un suicidio morale. Ha «espropriato se stesso del diritto alla vita», per usare la formulazione di papa Pio XII. Un’esecuzione è solo il riconoscimento di ciò da parte dello Stato.
Tra i motivi per cui sono personalmente contraria alla condanna a morte di Tsarnaev, posso dire questo: si tratta di una rappresentazione errata della giustizia e non è altro che l’ennesimo omicidio inutile. La sua morte non può «controbilanciare» il dolore sostenuto da centinaia di feriti gravi e quattro morti innocenti. Se il punto è punirlo, l’ergastolo in un carcere di massima sicurezza dall’età di 21 anni sarebbe più duro di un’attesa più breve e meno restrittiva nel braccio della morte. La complessità della sua educazione come giovane immigrato in un clima culturale abbastanza islamofobo, oltre a fattori di influenza da parte di una madre e di un fratello «radicalizzati», o da parte di suo padre malato mentalmente, non esclude assolutamente la possibilità di una sua redenzione o lo sviluppo di un sincero rimorso.

Realisticamente, non credo che la mia cultura abbia una capacità sufficiente di resilienza, maturità o senso del perdono per dargli il benvenuto nella società dopo una lunga sentenza. Sembra quindi realistico condannarlo all’ergastolo, cosa che acquisirebbe il senso di una catarsi culturale, di un rifiuto simbolico di tutte le azioni terroristiche, considerando appunto l’improbabilità che una sua riabilitazione all’interno della società possa avere successo. Una vita trascorsa in prigione, comunque, non è una vita inutile; in carcere avrebbe ancora un potenziale di crescita e di contributo alla società. Ma la pena di morte è inefficace: non riesce a soddisfare i principi di un sistema di giustizia. Con maggiore indignazione, vorrei aggiungere che è barbarica e primitiva: mi vergogno del fatto che il mio paese, così avanzato per tanti altri aspetti, non sia riuscito a manifestare un’espressione più sofisticata di giudizio e di democrazia.

Da Confronti


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