Feydeau ne era convinto anche se non poteva dirlo a chiare lettere- e quella reticenza, quella ineluttabilità da “pochade” erano la chiave delle sua fortuna. Cosa capiva Feydeau? Che tutto a questo mondo è scindibile, risolubile, evasibile, tranne che il matrimonio. Proprio nel senso della sua ‘indissolubilità’ nevrotica, ma necessaria, Poiché, senza che interferisca (non richiesto) il crisma religioso, il matrimonio (la famiglia, la procreazione, la discendenza) è collante, coefficiente, mastice aggregativo di un’istituzione (borghese e non) che sta alla radice, non negoziabile, ed ‘ordinato’ del vivere civico: anche a rischio- come avvertiva Gaber- che si diventi tutti ‘polli da allevamento’. A maggior gloria (e sostentamento) della gerarchia, dello status quo della piramide sociale.
Feydeau sapeva, probabilmente ne scalpitava, ma per rendersi ‘gradevole’, ben accetto (e remunerato) dalla società del suo tempo ‘insegnava’ che una cosa è il legame coniugale, altra cosa è l’adulterio, il libertinaggio (la ‘vie allumeuse’) che, a riparo da indiscrezioni e sferzate alla Oscar Wilde, può esercitarsi sia da parte dell’uomo, sia da parte della donna, con debita discrezione e a condizioni di reciprocità o di consorti abbastanza allocchi.
Paradigmatico è quindi questo “Sarto per signora” che Binasco e Solfrizzi restituiscono in edizione non convenzionale, anti bella- epoque, con sfumature di inusitata melanconia, stanchezza fisica, torturata coazione a ripetere. In un dimesso disegno scenografico e ‘attorale’ che, a tratti, rimanda più alle farse di Petito e Scarpetta che non alle ronde e girandole dei menage d’antan. Che qui si fanno intingoli basilari di un vaudeville ‘divertente ma triste’ come qualcosa cui non ci si può sottrarre, che va espletato per dovere di ruoli, convenzioni, copione . Ambientata in una città mesta e indefinita (ma con tonalità dell’italiano basico, dialettale) , la ‘ilaro-commedia’ tratta di un modesto medico dall’accento pugliese , fresco di matrimonio ma insofferente (immalinconito) dal nuovo status. Il quale, per poter incontrare la sua (nuova, seriale) amante è costretto a fingersi ‘couturière’ di scarso talento sarto, scatenando, ad orologeria, una serie gag goffe e scassaguai, quasi degne di un Oblomov dalla libido in deflusso. Coinvolgenti, come è normale che sia, tutti i comprimari previsti dalla piéce origiaria. E che, di loro conto, rappresentano una sorta di bestiario umano derivante dalla commedia dell’arte e straripante nella sempre in auge ‘arte di arrangiarsi’.
Certo, si potrebbe dissertare di quanto i deliri di Feydeau (e compagni d’avventura della scena francese d’epoca)abbiano condizionato la voluta irrazionalità, demenzialità, catatonici tormentoni di altro teatro successivo (Jonesco, Wedekind, talvolta anche Brecht). Ma ho la sensazione che, nel nostro caso, si andrebbe fuori tema e fuori clima. Risaltando- ripeto- in questo “Sarto per signora” (che merita di essere visto, alla sua autunnale ripresa, come alternativa critica alla tradizione convenzionale e ‘boulevarier’) tutta una stramba atmosfera che, italicamente, ci inchioda (e deride) alle maschere di Peppe Nappa, Felice Sciosciammocca, Lando Buzzanca(ai tempi del ‘merlo maschio’ e del ‘vichingo venuto dal sud’) -e tanti altri ‘tombeurs de femmes’ loro malgrado, in un’improbabile tripudio di edonismo e trasgressione avente per ambientazione l’atavica fame del nostro meridione. E pure settentrione. Diversamente imbranati, ma verosimili.
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“Sarto per Signora” di Georges Feydeau. Regia e adattamento di Valerio Binasco. Interpretato da Emilio Solfrizzi, con Anita Bartolucci, Barbara Bedrina, Fabrizio Contri, Cristiano Dessì, Lisa Galantini, Simone Luglio, Fabrizia Sacchi, Giulia Weber. Scena Carlo De Marino. Costumi Sandra Cardini. Luci Pasquale Mari . Sala Umberto di Roma