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Roma, le macerie della “Comunità della pace”

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La chiamavano “Comunità della pace” e poco tempo fa era stata visitata anche da papa Francesco. Dall’11 maggio, dopo il passaggio della tanto invocata ruspa (sempre più spesso considerata il mezzo, neanche tanto simbolico, per risolvere le difficoltà del paese), l’insediamento di ponte Mammolo è un cumulo di macerie, di fronte al quale alla fine di maggio erano attendate alcune decine di ex residenti.

Nella “Comunità della pace”, il cui sgombero rovinoso è finito anche sulle pagine del New York Times, vivevano circa 400 persone, in maggioranza rifugiati politici, molti dei quali provenienti dal Corno d’Africa. C’erano poi richiedenti asilo “transitanti”, diretti verso l’Europa del Nord, e infine migranti est-europei e latinoamericani.

C’erano case di fortuna, non baracche ma abitazioni costruite a poco a poco nel corso degli anni, un tetto dove rientrare al termine di una giornata di lavoro, sempre cercato, a volte trovato, quasi mai pagato adeguatamente. Come in altri casi di sgombero, “era nell’aria”, “si sapeva”. Da tempo c’erano negoziati informali in cui residenti, autorità comunali e associazioni di volontariato per i diritti dei rifugiati cercavano una soluzione. La “Comunità della pace” si stava allargando, a detta di alcuni forse troppo. Ponte Mammolo è uno snodo importante, un punto d’interscambio (come si dice) cruciale nella periferia est della capitale.

La soluzione è stata lo sgombero. Il diritto internazionale prevede che questo atto debba essere notificato a tutti gli interessati, per tempo, e che a questi debba essere fornito un alloggio alternativo adeguato. Altrimenti, è “forzato”, cioè illegale. Molte delle persone sgomberate hanno avuto due minuti di tempo per abbandonare l’insediamento. Altre sono uscite all’alba per andare al lavoro e al rientro hanno trovato solo macerie. Documenti personali, ricordi, vestiti, medicine sono finiti sotto la ruspa. Decoro, allarme sanitario. Le ragioni fornite per giustificare gli sgomberi sono le solite: in fondo lo si fa per il “loro” bene.  C’è da chiedersi, peraltro, di fronte a un’asserita presenza di malattie contagiose, che senso abbia un intervento che inevitabilmente disperde i contagiati, rendendoli contagianti in un territorio più vasto.

Degli sgomberati, c’è chi è scomparso nell’invisibilità e chi ha trovato – a seguito dell’intervento dell’assessora alle Politiche sociali Francesca Danese – ospitalità in dormitori e centri (tornando da una seppur precaria auto-organizzazione abitativa a dipendere dall’assistenza, nel pesante clima di ostilità delle periferie romane, spesso penalizzate da scelte amministrative che tendono a considerarle “luoghi di scarico”).

Restano in strada, dall’11 maggio, decine di sgomberati di ponte Mammolo, accampatisi a pochi metri di distanza, nel piazzale antistante. Quale soluzione per loro?


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