“Chissà cosa sarebbe stato di me, senza lui, senza il suo aiuto, dieci anni prima, quando all’improvviso ero precipitato nell’amnesia e brancolavo nella nebbia. Valendosi delle sue molte conoscenze mi aveva procurato uno stato civile”. Hutte, il vecchio proprietario dell’Agenzia di investigazioni in cui il protagonista lavora, chiude bottega, si ritira a Nizza a consumare gli ultimi anni della vecchiaia; a Guy Roland, restato a spasso, non resta che applicare a se stesso il metodo dell’inchiesta a lungo maturato nella professione e cercare di ricomporre in un puzzle i frammenti sparsi della sua memoria disgregata. Sospeso nell’aria, impalpabile, il presentimento di una tragedia che ha provocato quel dissesto, simile all’esplosione di una bomba di cui però non udiamo la deflagrazione né scorgiamo lo scempio, avvertendone nell’anima soltanto l’orrore. Nell’impresa di riafferrare un se stesso scomparso in fondo a un tunnel buio, Guy scopre di chiamarsi forse Pedro McAvoy – ma sarà quello il vero nome o non piuttosto Howard de Luz? – e alcuni indizi lo conducono a un’avvenente immigrata russa, Gay Orlow, che prima di arrivare in Francia era stata ballerina in America, dove aveva finito per concludere la propria vita, suicida, per paura della vecchiaia: “Era una bionda con gli occhi verdi… Una bionda molto speciale… Come dire? Una bionda cenere”.
Così la descrive Waldo Blunt, il musicista jazz che era stato il suo primo marito, e che suona il piano in un locale parigino eseguendo su richiesta “Que reste-t-il de nos amours”. Ora ha una moglie giovanissima, Dany, che però riceve altri uomini in casa, e molte volte è costretto ad aspettare al freddo, di notte, seduto sui gradini del Museo d’Arte Moderna: “Tutto in lui era rotondo. Il viso, gli occhi azzurri, perfino i baffetti arcuati. Anche la bocca, e le mani paffute. Mi faceva venire in mente uno di quei palloni che i ragazzi tengono legati a uno spago e lasciano andare qualche volta per vedere fino a che altezza saliranno”. Il romanzo si intitola “Via delle Botteghe Oscure”, un capolavoro di Patrick Modiano che risale al 1978, solo ora riapparso presso Bompiani in occasione del Premio Nobel. Il lettore subisce il fascino ipnotico, irresistibile, del viaggio in una regione inesplorata della mente, una sorta di perlustrazione intergalattica tra sinapsi assenti o pericolanti. Guy vive a Parigi, la città che racchiude la sbiadita topografia di luoghi, strade, scorci di ricordi frantumati, un caleidoscopio di facce senza nome tra le quali rintracciare il proprio sembiante, ricombinando un disegno compiuto attraverso la testimonianza di estranei.
Ogni tanto, in una vecchia foto, lo smemorato ha l’impressione di provare un trasalimento, di percepire un’emozione familiare; allora si mette sulla traccia degli altri personaggi che vi appaiono, si aggrappa a una data, a una via, a un nome scarabocchiato sul retro. Invariabilmente imbattendosi in un disorientante gioco di rifrazioni, di figure sfuggenti come in un dedalo di specchi, ectoplasmi simili a brandelli di sogni che svaporano nel momento stesso in cui affiorano dalla bruma compatta. Capita anche che i personaggi si sovrappongano, scambiandosi connotati e identità, oppure conducano a vicoli ciechi, a vite spezzate, a sequenze limpide ma prive di scenari. Chi sono Paul Sonachitzé, oppure il cuoco Heurteur, e perché si parla di fuorusciti russi, o dell’Hotel Castille dove egli avrebbe alloggiato? Come mai gli sembra che Freddie, un bruno alto che in America era stato il confidente dell’attore John Gilbert, gli sia così somigliante? E chi è quel fotografo gay, Jean Mansoure che si fa chiamare il Cavaliere Azzurro e gli versa in “bicchieri stretti” poche dita di Marie Brizard, il liquore dolce il cui sapore si confonde con i rasi, gli avori, le dorature stucchevoli della casa? “Con Hutte chiacchieravo spesso di questi esseri di cui le orme si perdono. Gente strana che al passaggio lascia solo un scia di nebbia che prontamente svanisce. Nascono un bel giorno dal nulla e al nulla ritornano dopo un fugace brillio. La maggior parte, anche dei vivi, non avevano più consistenza di un vapore destinato a non condensarsi mai”. Negli ultimi capitoli alcune di quelle antiche ombre si ritrovano insieme al Croix du Sud, uno chalet tra le nevi vicino al confine svizzero. Dal terrazzo, nella notti terse, il villaggio di Megéve appare “come una miniatura, come uno di quei giocattoli natalizi che si espongono in vetrina”. Tre degli ospiti possiedono passaporti diplomatici della Repubblica Dominicana: “Nessuno li avrebbe mai cercati lì, non rischiavano nulla”. Guy è innamorato di una ragazza che gioca benissimo al biliardo, loro due si appartano volentieri incuranti degli amici che preferiscono condurre vita mondana: “Denise entrò e mi raggiunse vicino alla finestra. Indossava una pelliccia e mi si stringeva contro. Sentivo il suo profumo pungente. Sotto la pelliccia aveva uno chemisier. Ci trovammo sul letto, sul quale restava soltanto il materasso”. Insieme tentano di attraversare il confine, fidandosi ingenuamente di biechi individui disposti a fare da guida in cambio di molti soldi. E’ il 1943: da cosa vogliono fuggire, da chi debbono salvarsi a tutti i costi?!
Giorgio Montefoschi nella post fazione parla di romanzo felliniano e evoca “Otto e Mezzo”. Osservazione assai fine se ripensiamo al film più proustiano di un antiproustiano dichiarato, il quale però in seguito realizzerà “Amarcord” in cui l’ordito coincide con la pura rappresentazione della memoria del narratore. Inoltre il regista aveva in serbo un’intuizione ancora più sconvolgente. Nel film in preparazione sulla Commedia di Dante, mai realizzato per la sopravvenuta scomparsa, Fellini aveva ipotizzato l’Inferno come il collasso di tutte le sinapsi della mente, l’impossibilità di governare la coscienza per la distruzione dei ponti che collegano tra loro le cellule cerebrali. Saltati quei viadotti protesi sull’abisso, non rimane che l’angoscia vertiginosa e la dissoluzione dell’essere nel buio di un immenso buco nero. Per Federico era stato un sinistro presagio.