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L’Ungheria e i muri. Culturali prima ancora che fisici

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Una recinzione alta quattro metri lungo i 175 chilometri di confine con la Serbia. La decisione dell’Ungheria di costruire un muro contro i migranti è dolorosa e rimanda a momenti molto bui della storia, quando l’Europa era umiliata da blocchi e chiusure. Certamente l’immigrazione deve essere gestita, ma quest’approccio al fenomeno è sicuramente frutto di muri culturali prima ancora che fisici. E’ una strada in discesa verso la fine del diritto inalienabile di chiedere asilo. Anche la Bulgaria ha costruito una barriera alla frontiera con la Turchia. E la stessa Serbia sembra che stia progettando misure analoghe per bloccare i flussi dalla Macedonia.

Quel che succede al valico con la Francia di fatto è una sorta di muro e per fortuna sembra smentita la notizia di un provvedimento analogo da parte italiana, al valico del Tarvisio con l’Austria. Dopo più di vent’anni, in definitiva, il trattato di Schengen (primo gennaio 1993) sembra ormai solo una finzione. Ma a ben guardare certi muri non sono mai stati abbattuti. In Europa ne resistono quattro, da secoli: Belfast, Mostar, Mitrovica, Cipro. Frutto più che altro di conflitti politici insanabili, i nuovi muri di oggi sono invece il frutto di un’invasione biblica inarrestabile di cui fatichiamo a prendere atto.
Nel mondo ci sono cinquanta milioni di rifugiati che scappano da fame, guerre e violazione dei diritti umani: dalla Nigeria alla Siria, dall’Egitto alla Russia. Sono almeno cento i Paesi da cui si fugge. La realtà è che la Terra si fa stretta. Due secoli fa eravamo un miliardo, pochi anni fa eravamo cinque miliardi, oggi siamo quasi sette miliardi e mezzo, nel 2040 saremo addirittura nove miliardi. Dicono gli esperti dell’Onu che fra un secolo, se non rallenta il ritmo di crescita, potremmo essere trenta miliardi di persone.

Come si fa dunque a parlare di frontiere, di muri? C’è chi parla addirittura di un “sesto continente” che dal cosiddetto terzo mondo si sposta, in cerca di sopravvivenza, verso i Paesi industrializzati. La Terra ormai è questa, le risorse non bastano più e gli spazi sono sempre più ristretti. Ma il mondo evidentemente non è pronto a questa idea di universalità. Ecco perchè avvengono episodi vergognosi come la storia di una giovane donna eritrea costretta tempo fa a lasciare il posto a un bianco su un autobus a Roma. Sembra una metafora: la Terra somiglia sempre più a quell’autobus, gremito, soffocante, dove ci si sbrana per quei pochi posti a sedere, dove c’è il timore che gli altri ci tolgano spazio. Ed ecco dunque il nuovo razzismo, non più ideologico, legato al colore della pelle, ma alla lotta per la vita. Ecco allora crescere la paura. E i muri.


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