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La normalità dell’accoglienza

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Basta parlare di “emergenza”, l’accoglienza deve essere programmata

La parola “emergenza” continua a rimbalzare da una bocca all’altra con riferimento all’accoglienza. Eppure sono in molti a ricordare che il fenomeno degli arrivi, in considerazione delle sue caratteristiche di continuità e prevedibilità, non può essere affrontato con un approccio emergenziale e deve essere, al contrario, programmato e ordinato.

Pubblichiamo di seguito un articolo di Filippo Miraglia pubblicato da Il Manifesto: «La normalità dell’accoglienza».

La normalità dell’accoglienza

Di Filippo Miraglia

L’Europa a 28 sembra essersi infranta di fronte alle sue responsabilità internazionali con l’arrivo di poche migliaia di persone in cerca di protezione. I numeri spiegano chiaramente quanto sia strumentale e inaccettabile la reazione dei governi con l’attivazione di misure straordinarie utili solo a consolidare la retorica dell’invasione e ad alimentare il razzismo.

Intorno al bacino del Mediterraneo, è vero, c’è un’emergenza umanitaria. Solo guardando i dati della Siria si capisce come la comunità internazionale debba attivare strumenti straordinari per far fronte alle conseguenze di una guerra che dura da più di due anni e costringe milioni di persone a fuggire. Il Libano dal 2014 sta accogliendo più persone da solo di quanto non abbia fatto tutta l’Ue. In tutta l’Unione Europea infatti, nel 2014, sono state presentate meno di 650 mila domande d’asilo, mentre il Libano ha accolto più di un milione di profughi siriani. Persone, famiglie, che usufruiscono dei servizi pubblici, tanto che in alcune scuole sono più numerosi i bambini dei campi profughi che i figli dei libanesi.

L’Europa si sta sottraendo dunque alle sue responsabilità e anziché attivare misure adeguate per l’accoglienza, ad esempio applicando la Direttiva 55/2001 che consente il rilascio di un titolo di soggiorno europeo temporaneo in caso di flussi straordinari, reagisce con una ingiustificata rincorsa ad azioni di chiusura. Siamo addirittura alla chiusura delle frontiere interne, con la sospensione dell’accordo di Schengen, per evitare che chi arriva in Italia possa lasciare il Paese e aggirare il regolamento Dublino. In Italia intanto dobbiamo assistere ad episodi vergognosi come quello della stazione Tiburtina di Roma.

Le reazioni allarmiste dei governi si sommano all’incapacità dell’Italia di far fronte alla gestione di alcune migliaia di arrivi, programmandone per tempo la distribuzione sul territorio, e agli scandali di Mafia Capitale e dintorni, che stanno avvelenando il clima e rischiano di cancellare anche le esperienze positive, molto diffuse, anche se insufficienti, nel nostro Paese. Ma non basta. La situazione reale del sistema d’accoglienza è purtroppo anche peggiore. A Roma, come a Milano, e in molte altre grandi città, migliaia di richiedenti asilo, arrivati nella primavera del 2014, più di un anno fa, non hanno ancora avuto l’appuntamento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Le domande d’asilo residue del 2014 sono più di 50 mila, e chi arriva oggi rischia di dover aspettare la fine del 2016 per il colloquio con la commissione.

Una situazione che, oltre a determinare ingiustizie e frustrazione tra i profughi (non sapere neanche quando si verrà ascoltati e quindi quando potrà essere avviato un percorso di integrazione determina incertezza e umiliazione), produce uno spreco di risorse e una reazione negativa dei territori che ospitano i profughi in attesa. Tutto diventa così più difficile. L’assenza di una programmazione all’altezza dell’attuale emergenza umanitaria, che riguarda un numero di persone ampiamente prevedibile, rende impossibile organizzare in maniera,efficace il sistema d’accoglienza ed apre spazi a comportamenti illegali e alla corruzione. Non si tratta soltanto di evitare affidamenti diretti, di escludere soggetti privi di esperienza, o di predisporre un adeguato sistema di controllo. Tutto questo è necessario ma non basta. E indispensabile innanzitutto uscire dalla gestione emergenziale, che induce a scelte più costose, produce grandi centri senza servizi adeguati e con un impatto sociale negativo, generando nei territori sentimenti di rigetto e rendono sempre più difficile programmare un’accoglienza ordinaria, con risorse sufficienti, strumenti e personale competente.

Tutto questo non è frutto del caso, ma dell’incapacità del governo di fare il proprio mestiere. Un’incapacità che sta costando cara al nostro Paese sotto tanti punti di vista, ma che soprattutto penalizza gli uomini e le donne che da noi si aspettano protezione. Una situazione che richiede un cambio di rotta immediato, se non vogliamo essere travolti da un caos che fa comodo solo ai predicatori di odio.


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