Siamo all’alba di una nuova era della comunicazione globale: quella del “giornalismo diffuso”. Grazie alle tecnologie, che si rinnovano di continuo, l’informazione corre da una parte all’altra del pianeta in tempo reale, spesso senza più filtri né controlli “professionali”. Si allarga così la conoscenza e si diffonde l’informazione verso strati immensi di popolazione, alla quale un tempo (neppure dieci anni fa) nessuno dei media tradizionali (stampa, radio, TV) riusciva ad arrivare. Si tratta di un giornalismo fatto non sempre dai “professionisti” del mestiere né gestito dai canali ufficiali, rifacentisi ai grandi gruppi editoriali mondiali proprietari di agenzie stampa e foto, TV satellitari e via cavo.
Ma più si diffonde la comunicazione online, più i professionisti dell’informazione diventano precari, vengono licenziati in massa, subiscono contratti di fame, pressioni e malversazioni di ogni genere. Aumentano i giornalisti torturati e uccisi, incarcerati e condannati a risarcire ingenti somme: l’autonomia e la libertà di azione vengono ridotte al lumicino.
Nel frattempo, i grandi gruppi mediatici oligopolistici macinano profitti, le “Over The Top content”, ovvero le società Big di Internet-TLC–Smartphone-PC-Software, ormai stanno sopravanzando i Tycoon di un tempo, facendo impallidire spregiudicati multimiliardari come lo “Squalo” Rupert Murdoch.
Insomma, il sistema globale della comunicazione vive una stagione di “libertà anarcoide”, che però arricchisce i “soliti noti” del mercato, impoverisce i professionisti del settore, allarga esponenzialmente la platea dei “citizen journalist”, ma produce anche danni irreparabili alla privacy, genera spesso false informazioni che si affermano come “verosimili” e vengono poi amplificate (i casi della Primavera araba o della guerra in Siria e delle gesta sanguinarie dell’ISIS, per esempio), generando anche scelte politiche, economiche, culturali, determinando gli orientamenti dell’opinione pubblica mondiale.
Siamo noi, umili artigiani di un giornalismo a metà strada tra i metodi antichi e le incessanti innovazioni tecnologiche, capaci di “intercettare” e dominare questi cambiamenti epocali?
Concordo quasi totalmente con le analisi elaborate da padre Francesco Occhetta della Compagnia di Gesù, come mi convincono i ragionamenti puntuali di Beppe Giulietti e Carlo Verna. Con quest’ultimi due mi lega una storia più che ventennale di battaglie professionali e sindacali. Insieme abbiamo vissuto le stagioni riformiste del Gruppo di Fiesole, di Autonomia e Solidarietà, della formazione dell’USIGRAI. Soprattutto, insieme abbiamo fondato Articolo21 nel 2002, che resta una speciale “lobby democratica” a difesa della libertà di informare ed essere informati, unica nel suo genere in tutta Europa.
Vorrei, quindi, parlare dell’Ordine dei giornalisti ed avanzare alcune proposte, in vista magari degli Stati generali dell’Informazione. Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, a Fiesole, in molti proponemmo la profonda riforma dell’Ordine o la sua abolizione. A 30 anni di distanza stiamo ancora discutendo come riformarlo dalle fondamenta. Ho avuto l’opportunità di insegnare alla Scuola di giornalismo della LUISS a Roma e ho fatto parte varie volte delle Commissioni di esame per l’iscrizione all’Ordine. La mia esperienza è che i giornalisti di “razza” sono più spesso coloro che imparano la professione “su strada”, come si usa dire in gergo, piuttosto che coloro che si formano nelle Scuole biennali. Certo, oggi come oggi, c’è bisogno per fare bene questo mestiere di avere almeno una laurea.
Ebbene, proprio perché l’Ordine “sforna” migliaia di “professionisti”, in stragrande maggioranza destinati alla disoccupazione o al precariato a vita, credo che vada rimosso quest’ostacolo alla libera professione di informatori e comunicatori. Semplicemente, come avviene nel resto del mondo, occorre distinguere coloro che fanno solo il giornalista e da questa professione traggono sostentamento, da coloro che invece saltuariamente si “vestono” da giornalisti, o che fanno parte della folta schiera di “citizen journalist”, ma hanno un altro lavoro grazie al quale sopravvivono.
Per regolarizzare gli uni e gli altri, basterebbe creare un Albo professionale, tenuto dal Sindacato, che distinguesse le due figure e, soprattutto, facesse rispettare una speciale “Carta etica”, che racchiuda quelle norme deontologiche, oggi sparse nelle tante Carte dei diritti e dei doveri. E nel caso di omissioni o contestazioni da parte dei lettori o della magistratura si risponderebbe a quel Giurì/Garante per la lealtà dell’informazione, proposta più volte da Giulietti.
Quindi, abolizione dell’Ordine, riforma dalle fondamenta del Sindacato unitario, che diventerebbe così un organismo che controlla l’operato di chi fa il giornalista a vario titolo, ne difende i diritti economici e contrattuali, ne organizza corsi permanenti di aggiornamento professionale e si adopera come una “lobby democratica” nelle sedi istituzionali, affinché vengano rispettati i principi di libertà, autonomia e indipendenza da qualsiasi potere istituzionale, politico ed economico. Sarà cura, ovviamente, di questo sindacato contrastare in tutte le sedi qualsiasi forma di censura sui media tradizionali e online, e di redigere un “Protocollo sulle responsabilità civili e penali” di chiunque scriva o immetta filmati/foto online, perché non venga lesa la privacy né siano danneggiati minori, persone deboli, e non vengano propagati “dati sensibili”.
Da ultimo, vorrei poi soffermarmi sul concetto di “Etica professionale”, del rispetto dei diritti universali, dell’osservanza di una “deontologia”, come scrive padre Occhetta: “Se intorno alla deontologia i giornalisti si identificano come un «corpo scelto», ci si chiede se l’osservanza delle norme deontologiche riguardino anche i comunicatori non giornalisti come i bloggers o più semplicemente chi pubblica attraverso i social networks. Per alcuni, infatti, sembra davvero tutto lecito: postare foto di morti carbonizzati oppure di persone ammazzate e poi crocifisse, inquadrare volti di bambini disperati, promuovere pubblicità occulta, divulgare video volgari e violenti. Davanti a questo nuovo scenario la deontologia ha subito una battuta di arresto ed è alla ricerca di nuovi equilibri…Ogni azione del giornalista è già deontologica se è rivolta al servizio della ricerca della verità, al rispetto delle persone e all’indipendenza del giudizio”.
Parto dalla mia esperienza, padre, che risale agli anni del “Post-Sessantotto”. Ho sempre ritenuto giusto pubblicare foto e documenti anche “duri” o che potevano in qualche modo disturbare il “pubblico sentire”. Sempre contestualizzando e spiegando, con articoli correlati e, laddove si ritenevano necessarie, anche interviste.
Le immagini crudi del cadavere di Aldo Moro nella Renault rossa in via Caetani, a Roma, del 9 maggio 1978, hanno inciso nella pubblica opinione e soprattutto nelle frange radicali della sinistra più di tanti editoriali, manifestazioni, comizi o fumosi dibattiti alla Casa della Cultura di Roma.
La foto agghiacciante della bambina vietnamita Kim Phuc, scattata dal fotoreporter dell’AP Nick Ut, l’8 giugno 1972 a Trang Bang, a pochi chilometri da Saigon, dopo un bombardamento aereo con bombe al napalm, influì enormemente nella coscienza collettiva dell’opinione pubblica mondiale e soprattutto americana, per chiedere la fine della guerra nel Vietnam. Quell’immagine fu un “pugno allo stomaco”, valse a Nick Ut il premio Pulitzer e fu scelta come World Press Photo of the Year del 1972. Da ultimo, poi, non mi sono trovato d’accordo con quanti hanno ritenuto di non immettere sui media tradizionali e online le strazianti immagini dei video “prodotti” dall’ISIS. A certe fasce orarie, con le dovute contestualizzazioni, queste, a mio parere, sarebbero molto più utili a creare un’opinione pubblica consapevole e contraria ad ogni integralismo, specie nel mondo islamico moderato, più di tanti editoriali o servizi sui leader che stanno ancora discutendo su come intervenire in quell’area martoriata del Medio Oriente.
Certo oggi la “Rete” propone anche oscenità e immagini scabrose “gratuite”, che nulla hanno a che vedere con l’informazione, ma suscitano morbosità e rischiano di generare una spirale perversa di esibizionismo ed emulazione all’infinito. Siamo alla cosiddetta “libertà anarcoide” della Rete, che andrebbe invece regolata con il contributo di chi vi opera e non solo da parte delle Autorità di controllo. Le leggi in parte già ci sono, ma per ora, specie a sinistra, prevalgono le “grida manzoniane” di chi si oppone a qualsiasi regolamentazione della Rete. E’ ovvio che si corre il rischio concreto di vedersi, invece, appioppare legislazioni censorie, come sta accadendo un po’ in tutta Europa.