Le considerazioni di padre Occhetta sulla deontologia del giornalista predispongono a un’ampia e doverosa riflessione. Tuttavia, è su una frase che vorrei soffermarmi: “Ogni azione del giornalista è già deontologica se è rivolta al servizio della ricerca della verità, al rispetto delle persone e all’indipendenza del giudizio”. Chiariamo subito che la “verità” in questione è, per dirla con San Tommaso, adaequatio rei et intellectus, cioè corrispondenza tra una notizia, un’inchiesta ecc. e i fatti, considerati nella loro oggettività. Insomma, un obiettivo certamente difficile da perseguire ma alla portata del giornalista, come dello storico o dello scienziato.
D’altronde, perché la ricerca della verità rientri in un codice deontologico, e ne sia addirittura il fondamento, devono sussistere alcune premesse che la rendano possibile. Ad esempio, pur prescindendo dalla correttezza deontologica – e finanche dalle competenze professionali – quanti sono i giornalisti che realmente godono del privilegio di confrontarsi con la verità, cioè di trovarsi là dove i fatti accadono, di essere una fonte primaria della notizia, di essere inviati, non occasionalmente, nell’immensa periferia che circonda i paesi del cosiddetto G20, di osservare da vicino i centri di potere pubblici e privati, legali o illegali (a meno di non esserne stati cooptati in quanto addetti alle pubbliche relazioni o agli uffici stampa) senza rischiare querele intimidatorie, accuse di alto tradimento o addirittura la vita?
A quale tipo di verità possono attingere la moltitudine di giornalisti-impiegati che, al pari dei prigionieri della caverna platonica, siedono davanti a uno schermo otto ore al giorno, costretti ad osservare, come in un caleidoscopio, innumerevoli frammenti di realtà che i motori di ricerca ricombinano incessantemente dando luogo a scenari continuamente aggiornati che generano, di fatto, una nuova forma di censura (additiva) che funziona per bulimia di contenuti piuttosto che per “tagli”? Quale verità possono rincorrere quei cronisti inviati a sgomitare intorno all'”onorevole” di turno per strappargli le consuete banalità?
Quanto dista il mondo della vita, la realtà “vera”, con le sue dinamiche, le sue contraddizioni e la sua complessità dalle stucchevoli passerelle d’opinione che da quindici anni presidiano militarmente quegli spazi di palinsesto televisivo una volta destinati al giornalismo d’inchiesta? Quando la verità è ridotta al rango di retroscena, e l’opinione sulla realtà rimpiazza la realtà, non siamo troppo lontani dall’inverarsi dell’aforisma nietzschiano: “non esistono fatti ma solo interpretazioni”.
Se queste considerazioni hanno un fondamento, allora bisogna chiedersi se sia possibile discutere della “verità” – principio che è a fondamento della deontologia professionale – se per un numero sempre crescente di giornalisti non sussistono le condizioni per accedervi. La deontologia, come ogni forma di etica, presuppone la libertà, compresa quella di mentire, di dissimulare, di occultare la verità.
Questa libertà è, tuttavia, negata da un coacervo di condizioni materiali (colossi mediatici che, di fatto, conformano a valori, interpretazioni e visioni del mondo centinaia di milioni di utenti profilati per essere meglio venduti alle agenzie di pubblicità; operatori dell’informazione ridotti a giornalisti-massa da un’inarrestabile processo di taylorizzazione delle “fabbriche della notizia”) e da un insieme di luoghi comuni molto diffusi anche all’interno della categoria (l’obiettività non esiste; fa notizia l’uomo che morde il cane, cioè la singolarità e non l’universalità, ecc.).
Per evitare che il confronto con la propria coscienza e con i principi deontologici si riveli un lusso consentito solo a una cerchia ristretta di operatori dell’informazione, bisogna preliminarmente far luce, criticamente, sul funzionamento del sistema globale dell’informazione e delle sue articolazioni nazionali, sul modello organizzativo che presiede alla produzione e alla distribuzione delle notizie, sul modo in cui sono utilizzate le nuove tecnologie e come potrebbero, al contrario, essere impiegate per restituire dignità e spessore al lavoro giornalistico.
In che misura questi temi sono presenti nei programmi dei corsi di aggiornamento istituiti dall’Ordine? Medice, cura te ipsum.