Osservando i potenti del mondo riuniti nell’amena località di Elmau, sulle Alpi bavaresi, abbiamo avuto l’impressione che questo G8 dimezzato, divenuto G7 a causa della defenestrazione coatta della Russia, in seguito alle sanzioni euro-americane per via della questione ucraina (una scelta sbagliatissima, ulteriormente aggravata dalla pessima idea di rafforzarle nell’errata convinzione di riuscire così a piegare Putin, senza tenere conto delle ripercussioni economiche sul Vecchio Continente e, più che mai, dell’indispensabilità della Russia nella risoluzione di numerose controversie geo-politiche che senza di essa rischiano di aggravarsi fino a diventare irrisolvibili), sia stato, forse, uno degli ultimi della storia.
Diciamo questo in considerazione del fatto che, ormai, il contesto scaturito dalla fine del secondo conflitto mondiale è stato ampiamente superato dal nuovo corso degli eventi, con un mondo che corre a velocità tripla rispetto al passato e una collettività che rivolge sempre più il proprio sguardo verso Oriente, verso le economie emergenti, verso un Sudamerica che non è più quello disperato e umiliato da feroci dittature di cui abbiamo letto nei capolavori dei grandi romanzieri di quelle terre.
Un mondo globale, dunque, legato a nuovi schemi e nuovi protagonisti; un mondo che richiede, pertanto, nuove categorie interpretative e la capacità di mettersi al passo dei rivolgimenti in corso.
Prendiamo uno dei temi cruciali del vertice, ossia la lotta contro i cambiamenti climatici. È senz’altro commendevole la decisione dei sette grandi di assecondare la richiesta dei consumatori e della parte più illuminata e innovativa del panorama industriale e finanziario di ridurre in un percentuale che va dal 40 al 70 per cento le emissioni di gas serra entro il 2050, così come è giusto accantonare i vecchi e superati combustibili fossili e puntare finalmente sull’energia pulita e sulle fonti rinnovabili, al fine di contenere entro i due gradi centigradi l’innalzamento delle temperature ed evitare sconvolgimenti catastrofici dell’intero ecosistema. Già, ma è possibile realizzare questa rivoluzione senza coinvolgere le economie arrembanti dei BRICS, come se i padroni incontrastati del globo fossero ancora i contraenti del Patto Atlantico più il Giappone? Ha senso ipotizzare piani industriali, di crescita e di sviluppo trans-nazionali, cioè i soli che possano funzionare, senza l’apporto di energie e risorse provenienti da economie che si attestano su tassi di crescita del PIL intorno al 6-7 per cento annuo, mentre noi arranchiamo e dobbiamo accontentarci dello zerovirgola?
E sul piano geo-politico e geo-strategico è pensabile combattere e l’ISIS senza coinvolgere il mondo arabo, senza aprire un confronto con l’altra sponda del Mediterraneo, senza consultare costantemente l’opinione pubblica egiziana e tunisina, senza analizzare nel profondo ciò che è avvenuto domenica scorsa in Turchia, con la clamorosa avanzata dei curdi di Demirtas? Ha senso ammettere il fallimento dell’Occidente, come ha fatto coraggiosamente Obama, senza provare a porvi rimedio, puntando su una presa di coscienza da parte delle popolazioni maggiormente sconvolte dalla carneficina jihadista?
E ancora: possono i sette grandi pensare di favorire la nascita di un’opinione pubblica europea, con un comune sentire, istituzioni condivise, una visione del mondo e del futuro compatibile e un rafforzamento del processo di integrazione, senza porsi il problema del disastro totale cui sono andate incontro le politiche di austerity imposte dalla Troika alle fragilissime economie del Mediterraneo?
Possono derubricare a mero populismo il desiderio di cambiamento radicale espresso nelle urne da popoli allo stremo? Possono tacere di fronte alla sfiducia collettiva manifestata dai turchi nei confronti di quel despota arrogante di Erdogan, la cui ambiguità sul terrorismo islamico è, a dir poco, imbarazzante?
E come pensano, infine, di salvare Atene se non si rendono conto che il problema non è tanto la saggia ostinazione di Tsipras e Varoufakis nel difendere quel che resta dello stato sociale greco o la cieca protervia dei creditori nel tentare di abbatterlo quanto il fatto che nessun paese può più farcela da solo, soprattutto in quest’epoca di mercati globali e scambi commerciali internazionali, con le merci che viaggiano per migliaia di chilometri e le informazioni che si diffondono in tempo reale da un capo all’altro del mondo.
Per non parlare poi del tema cruciale dell’accoglienza dei migranti: una questione scottante della quale la politica europea dovrebbe cominciare a farsi carico, spuntando una volta per tutte le armi dei populisti che lucrano sulle tragedie del mare e della disperazione umana per mero tornaconto elettorale e ponendo fine agli affari luridi di chi sulla cattiva accoglienza, basata su sfruttamento e condizioni di vita disumane, ha edificato un castello di malaffare, speculazione e controllo diretto della politica.
Infine, la lotta contro il cancro della corruzione, portata coraggiosamente avanti dal premier inglese Cameron, il quale però tende a commettere l’errore di non vedere (o forse di non voler ammettere) la stretta correlazione fra questo demone e l’avanzata del sistema liberista, di cui l’accordo di partnership commerciale transatlantica con gli Stati Uniti (TTIP) non è che l’emblema. Se siamo ridotti così, infatti, è proprio perché ormai la politica non è solo debole: spesso è addirittura inesistente, al soldo di lobby potentissime e spietate, desiderose di portare a compimento un processo di colonizzazione e dominio di cui lo smantellamento delle costituzioni del dopoguerra, dei diritti sociali e civili e del tessuto comunitario faticosamente costruito in decenni di democrazia effettiva costituisce la cartina al tornasole.
Siamo ormai in una stagione post-moderna, post-democratica, post-ideologica e priva di qualunque punto di riferimento; il che ci impone di seppellire questo inutile e parziale vertice e di sostituirlo definitivamente con il G20 e, contemporaneamente, di rivedere la composizione del Consiglio di Sicurezza all’ONU, rispecchiando gli equilibri attuali e facendo sì che l’Unione Europea cominci finalmente a parlare con una voce sola.
Siamo già in ritardo di diversi anni: temporeggiare ancora, vorrebbe dire condannare l’Occidente al declino definitivo e il mondo a una guerra permanente di interessi extra-politici che finirebbero inevitabilmente col condizionare le nostre vite fino a distruggerle.