A pochi metri dall’uscita “Viggiano Zona Industriale”, capisci subito che stai per inoltrati nel cuore nero e pulsate delle attività di estrazione idrocarburi in Europa. A Viggiano, in c/da Cembrina, località “Fosso del Lupo”, è ubicato IL COVA, acronimo che sta per Centro Olio Val d’Agri, uno stabilimento che occupa una superficie di oltre 180.000 m2 e che per le direttive Seveso è classificato a rischio incidente rilevante. Impossibile non notare nell’area circostante la presenza di insediamenti della Halliburton e della Baker Hughes. Presso il COVA viene trattato il greggio che la J.V. Eni/Shell estrae dalla concessione di coltivazione idrocarburi “Val d’Agri”; lo si potrebbe definire un centro di preraffinazione. Kilometri di condotte collegano i 26 pozzi eroganti allo stabilimento.
E’ martedì 16 giugno e sono di nuovo a Viggiano, in quella Valle che ho ribattezzato Valle dell’Agip. Ad accogliermi, manco a dirlo, un inconfondibile odore di uova marce. Una fonte mi ha riferito di un possibile sversamento di acque oleose nell’area V560 del COVA. L’intento è quello di fare qualche domanda e far parlare le immagini, nella consapevolezza che a volte esse possono essere più eloquenti di un fiume di parole. L’intento è quello di dar voce a chi non ha voce e far vedere, una volta di più, che nella Basilicata Saudita i “Buchi per terra” – per usare un’espressione cara all’ex Ministro Romani – si fanno a ridosso di dighe, sorgenti, centri abitati, zone Sic e Zps, parchi, ospedali, aree agricole, in zone a rischio frana e ad altissimo rischio sismico. Del resto, lo stesso COVA è ubicato a poche centinaia di metri dalla diga del Pertusillo, un importante invaso che fornisce acqua da bere alla vicina Puglia. Nell’Italia del dissesto idrogeologico, figlio del dissesto ideologico, può accadere che per estrarre un pugno di barili si mettano a repentaglio risorse ben più importante dell’oro nero, esse sì strategiche, quali l’acqua.
Parcheggio la mia Stilo in prossimità di Viale Enrico Mattei, e armato della mia telecamerina percorro i pochi metri che mi separano dal piazzale antistante il COVA. Nemmeno faccio in tempo ad iniziare a filmare che vengo raggiunto da una pattuglia dei Carabinieri della locale Compagnia. Dicono che devono identificarmi e non poca irritazione suscita la mia domanda:perché? Ancora pochi minuti e la situazione precipita: uno dei due Carabinieri prima mi invita a spegnere la telecamera e poi accompagna la richiesta con un “Allora non mi sono spiegato” e contestualmente porta la mano alla fondina della pistola, aprendola. Un gesto fin troppo eloquente, una scena da film western che forse ci sta tutta, considerando il far west petrolifero made in Basilicata.
In questo nostro Paese, in cui la strage di diritto, di principi costituzionali, di legalità si fa inevitabilmente strage di popoli e in cui al popolo sovrano viene quotidianamente negato il diritto a poter conoscere per deliberare, può accadere che una telecamera e un taccuino facciano paura. Una scena da far west nel Texas d’Italia – dicevo – ma che ha indubitabilmente il sapore dell’intimidazione.
C’è un film, “Urla del silenzio”, che ho visto e rivisto un’infinità di volte. Nella Basilicata del “nero su nero”, chi prova a parlare di veleni di regime, di una colonizzazione in atto o a denunciare quello che non esito a definire una sorta di programma “Oil for Food”, deve essere silenziato. Urla del silenzio sono le parole di coloro che provano a non rassegnarsi, in un contesto dove a volte hai la sensazione che l’unica parola buona sia la parola non detta.
A Viggiano non si respirano solo i veleni che da venti anni immette in atmosfera il Cova. No, a volte respiri paura, omertà e rassegnazione. Una rassegnazione che ha un che di atavico, che viene interrotta per fortuna da quei pochi che non ci stanno a piegare la testa. Penso al dottor Giambattista Mele o a Camilla Nigro di Libera Basilicata. In c/da Vigne, a ridosso del Cova, due gentili signore ti dicono a telecamera spenta che non ce la fanno più a convivere con “puzza, inquinamento e rumori” e che hanno deciso di andare via. Quando chiedo loro di ripetere quelle parole a telecamera accesa la risposta è: “tanto non serve”.
Viggiano è un’enclave della J.V. Eni/Shell, così come Corleto Perticara è un’enclave della Total, in una regione che ha il 34% del suo territorio asservito a titoli minerari. Una percentuale che a breve potrebbe arrivare al 75%, anche grazie al cosiddetto “Sblocca Italia”.
Viggiano non è il delta del Niger, ma poco ci manca. E allora, può accadere che nel 1999 il Ministero dell’Ambiente autorizzi l’ampliamento del Cova con il Dec/VIA 3560, nel quale incredibilmente si legge: “Nello studio si rilevano carenze in merito alla caratterizzazione della qualità dell’aria intorno al sito del Centro Olio[…]Pur in assenza di una esauriente caratterizzazione delle condizioni metodiffusive, si evidenzia un regime anemologico che presenta alcune criticità (in particolare, regimi di bassa velocità del vento); questo, assieme alla complessità orografica della zona rende da una parte difficile un’analisi dei fenomeni dispersivi, dall’altro può essere all’origine di fenomeni di alte concentrazioni di inquinanti”.
Può succedere in un contesto dove a volte si fatica a distinguere il controllore dal controllato. Può succedere in una realtà in cui l’Agenzia regionale per l’ambiente collabora con la Fondazione Mattei per la produzione di materiale scientifico.
Può succedere in una realtà dove le compagnie petrolifere finanziano di tutto, dai tornei di calcetto alle sagre, passando per i corsi d’inglese e i concerti. E può anche accadere che dal 2006 Eni reinietti una parte consistente delle acque di produzione petrolifera in una unità geologica profonda denominata Costa Molina 2. Eppure, una delibera del Comitato dei Ministri del febbraio 1977 afferma che lo scarico nel sottosuolo di effluenti industriali può essere effettuato solo in aree situate in “zone tettonicamente e sismicamente favorevoli”. L’area di Montemurro, dove è ubicato il Pozzo Costa Molina 2, è stata epicentro di uno dei sismi più devastanti registrati in Italia negli ultimi due secoli ed è tutt’altro che tettonicamente e simicamente favorevole.
Il film che meglio potrebbe descrivere la Lucania dell’epopea dell’oro nero è “Il Petroliere”, del quale è tra l’altro stato scritto: “Il Petroliere è un film fatto di bitume, di corpi che diventano tutt’uno con la terra e l’oro nero che la intride. Corpi pronti ad essere spezzati e anche dilaniati nella ricerca di un possesso avido quanto amorale”.
Nel ventennio si diceva che la patria si serve anche facendo la guardia a un bidone di benzina, evidentemente siamo passati dal bidone ai pozzi. E’ Viggiano, Val d’Agri, Italia, ma a volte sembra il Kazakistan.
* l’autore è collaboratore di Radio Radicale