Quando Adal ha visto i suoi disegni nel rapporto della commissione d’inchiesta sui diritti umani delle Nazioni Unite in Eritrea, si è entusiasmato. La chiamava la sua vendetta contro quel regime sanguinario che lo aveva costretto a scappare, lo aveva torturato e gli aveva ucciso un fratello. L’entusiasmo e la voglia di gridare a volto scoperto la sua rabbia è durata il tempo di riflettere e di rendersi conto di essere ancora in pericolo, soprattutto la sua famiglia rimasta in Eritrea. Helicopter, Jesus Christ, ad ogni tortura i militari avevano dato un nome grottesco Adal le ricorda bene, le ha subite per un anno e ha visto morire molti suoi compagni.
I disegni sono pubblicati con il consenso dell’autore è scritto in calce a quel rapporto di 500 pagine che descrivono come “le violazioni sistematiche e diffuse dei diritti umani sono state e sono tuttora commesse impunemente in Eritrea, sotto l’autorità del governo in carica.” Si tratta di crimini contro l’umanità ha detto con grande chiarezza Sheila Keetharuth membro della commissione di inchiesta per i Diritti Umani Nazioni Unite, presentando il rapporto, “non ci sorprende che in questi giorni un gran numero di coloro che attraversano il Mediterraneo e percorrono altre vie per raggiungere l’Europa, sono eritree. Fuggono un paese che non è governato dalla legge, ma dalla paura!”
Adal lo avevo incontrato il 4 ottobre 2013 a Lampedusa. Era il primo eritreo arrivato sull’isola a cercare notizie di su fratello che a 19 anni si era imbarcato su quel barcone affondato a poche centinaia di metri dall’isola. Veniva dalla Svezia dove ormai vive da anni e mi aveva raccontato che non era riuscito a convincere suo fratello a non imbarcarsi. Lui sapeva quanto fosse pericoloso. Quel viaggio lo aveva fatto nel 2005, una tempesta li aveva dirottati su Malta da dove era stato deportato in Eritrea dai militari maltesi.
All’arrivo ad Asmara era stato arrestato assieme ad altri 250. Li hanno portati in un vecchio carcere costruito dagli italiani, quando l’Eritrea era ancora una nostra colonia, su una delle isole dell’arcipelago Dalakh. “Un inferno, ricorda Adal, dal quale nessuno è mai riuscito a scappare.” La sua storia l’abbiamo raccontata in un documentario di Tg2 Dossier: “La neve, la prima volta”.
Ci mostrava quei disegni con le lacrime agli occhi. La sua matita correva sul foglio e in pochi tratti riproduceva una espressione di dolore, un uomo appeso per le braccia ad un albero, i piedi che a fatica toccavano terra. “Il sangue non circola, a molti si sono staccate le braccia dopo settimane che erano in questa posizione” raccontava Adal. Quell’orrore negato dal regime ha solo la forma dei disegni di Adal. Non esistono fotografie, non esistono filmati, solo le testimonianze delle vittime riuscite a scappare, a sottrarsi alla schiavitù del servizio militare che la dittatura eritrea impone a tutti dai 16 ai 60 anni.
Nel rapporto delle Nazioni Unite ci sono le fotografie satellitari delle decine di prigioni sparse in Eritrea. “Sono ovunque” ci ha detto padre Mussie Zerai, dell’agenzia Habeshia, un prete coraggioso di origini eritree, punto di riferimento di molti ragazzi che attraversano il Mediterraneo per cercare rifugio e per questo impegno oggi candidato al Nobel per la pace. “Si calcola che scappano 3 o 4 mila ragazzi ogni mese dall’Eritrea. Scappano da una dittatura sanguinaria con la quale l’Europa continua a fare affari, che ha scelto come interlocutore per fermare i flussi in uscita. Una scelta gravissima”. Il giudizio di padre Mussie è determinato. Si riferisce al Processo di Khartoum messo in moto quando a guidare l’Europa era l’Italia, appena chiusa l’esperienza dell’operazione di soccorso Mare Nostrum. In varie conferenze, la prima a Khartoum in Sudan, erano stato convocati i rappresentanti di tutti i paesi del Corno d’Africa per fermare l’emigrazione dai loro paesi. Sono stati promessi soldi “per lo sviluppo” in cambio: 300 milioni di euro solo all’Eritrea. “Ma come può esserci sviluppo in un paese dove non c’è il rispetto dei diritti umani?” si chiede padre Mussie che è convinto che siano le multinazionali a governare e ad orientare questo tipo di rapporti. Quella trattativa era stata avviata in diversi incontri. Tra i primi, nel luglio 2014, quello di Asmara dove è andato in visita l’allora sottosegretario Lapo Pistelli. “Ora Pistelli è candidato ai vertici dell’Eni e non è un buon segnale” dice padre Mussie “perché l’Eni ha interessi in tutto il Corno d’Africa”, e aggiunge: “per capire che qualcosa che non va nel processo di Khartoum dovrebbe essere sufficiente sapere che il Sudan, è governato da un uomo sul quale pende un mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja, per crimini contro l’umanità, Omar Al Bashir. Con persone così non si possono fare accordi.”
I ragazzi che scappano dall’Eritrea sono quelli che affollano i barconi diretti in Europa, sono quelli che si riparano nelle coperte termiche sugli scogli di Ventimiglia, quelli che sono costretti a trovare il modo di scavalcare i muri che l’Europa continua a costruire per proteggere i propri confini.
Sono quelli appesi per le braccia nelle carceri eritree che vediamo nei disegni di Adal che stanno facendo il giro del mondo. Unica testimonianza visiva delle torture negate dal regime, di cui nessuno parla. Il volto di Adal resta coperto per la sicurezza della sua famiglia, ma il suo impegno resta forte e determinato: “ho iniziato a disegnare queste torture per mostrare che in Eritrea c’è una dittatura sanguinaria che opprime e tortura il suo stesso popolo. Le giovani generazioni in Eritrea soffrono in questo modo e nessuno ne sa nulla. Voglio mostrare al mondo quello che succede, sono libero e vivo in un paese libero. Posso parlare adesso e posso mostrare queste torture al mondo.” Il mondo ora le ha viste, ancora non sappiamo se vorrà reagire.
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