L’art. 595 del Codice Penale è chiaro, l’aggravante scatta quando il danno alla reputazione è recato con qualsiasi mezzo che ne aumenti la pubblica conoscenza
commento dell’avv. Andrea Di Pietro – La sentenza 24431/15 della Corte di Cassazione, che ha dichiarato applicabile a un accusato di diffamazione su Facebook un’aggravante di solito contestata a chi reca l’offesa dalle colonne di un giornale, ha destato un ingiustificato stupore e ha indotto alcuni a trarre conseguenze che questa sentenza certamente non ha. La vicenda è già stata riferita da Ossigeno ma merita un inquadramento giuridico.
Già nel 1930 – quindi a distanze siderali dall’avvento di internet – il legislatore italiano previde correttamente che, essendo la diffamazione un reato che può essere commesso da chiunque (non solo dai giornalisti), esso avesse un effetto lesivo maggiore se il messaggio lesivo della reputazione fosse indirizzato a un numero potenzialmente indeterminato di soggetti. Tale riconoscimento di maggiore offensività derivante dal “veicolo” della diffamazione trovò concretizzazione nel terzo comma dell’art. 595 C.P. il quale prevede ancora oggi che “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516″. Sottolineo che in questo articolo del Codice Penale non si parla solo del ‘mezzo della stampa’ ma di qualsiasi strumento capace di fare conoscere l’offesa a un numero elevato di persone.
Recentemente l’avvento di Facebook e la sua diffusione hanno posto il problema di come considerare le peculiarità di questo mezzo di diffusione. Sebbene esso non si possa assimilare per analogia alla carta stampata, stante l’espresso divieto di analogia in malam partem in materia penale, certamente è da ricomprendere in quella previsione più generica che dice ‘o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità’”.
La sentenza oggetto di questo commento, a mio avviso giuridicamente ineccepibile, riconosce che la capacità diffusiva del mezzo Facebook-internet è assolutamente assimilabile, se non maggiore, di quella della carta stampata. Quindi gli effetti del reato, legati al pregiudizio derivante per la persona offesa dalla comunicazione con un numero altissimo e indeterminato di persone, giustifica in pieno l’operatività della aggravante di cui al terzo comma dell’art. 595 C.P.
Considero, invece, fuori luogo l’argomento secondo il quale questa sentenza prevederebbe una sorta di “estensione giornalistica alla responsabilità da social network” in dissonanza con la tutela maggiore che sarebbe invece riconosciuta al direttore di una testata on-line. Non è così. L’art. 57 C.P. “chiude” alla sola carta stampata le ipotesi di responsabilità da omesso controllo del direttore, mentre l’art. 595, terzo comma, C.P. “apre” a qualsiasi altro mezzo di pubblicità le ipotesi di responsabilità del soggetto agente, il quale non necessariamente deve essere un giornalista. Questa è la differenza ed è sostanziale.
Diverso sarebbe stato se la sentenza avesse esteso “a Facebook” l’operatività dell’art. 13 della Legge sulla Stampa (pena fino a 6 anni di reclusione in caso di attribuzione di fatto determinato). In questo caso vi sarebbe stata una palese violazione del principio di legalità in materia penale perchè attualmente la Legge sulla Stampa non è estensibile al mezzo internet e quindi a Facebook.
L’avv. Andrea Di Pietro è il coordinatore del servizio di consuenza legale di Ossigeno per l’Informazione