E’ più umana la giustizia o la pietà? Un quesito antico quanto il mondo sul quale Georges Simenon fonda la trama dell’ultimo romanzo pubblicato da Adelphi, “Il pensionante”, scritto a Marsilly nel 1933. Sono gli anni della grande depressione economica che affligge la Turchia e la vicenda mette in scena un giovanotto di Istanbul, con le fattezze ancora da adolescente, in viaggio sulla nave che dal Cairo fa rotta a Marsiglia. Si chiama Élie Nagéar e si infatua della seducente, giovanissima Sylvie, avventuriera belga concupita da tutti gli uomini a bordo, tra i quali lei sa destreggiarsi da abile professionista. Il ragazzo, che esibisce un certo tono di vita, ha lasciato la capitale turca per cercare fortuna in Europa avendo da piazzare una partita di tappeti che gli permetteranno di lucrare almeno duecentomila franchi. Entrambi allo sbando, Élie e Sylvie dividono una camera al Palace di Bruxelles; ma mentre lui tormentato da un violento raffreddore passa le giornate a letto a sudare, lei continua la sua attività di entraîneuse in uno sfarzoso locale notturno.
Mancano però i soldi per la vita facile nella quale lui le ha lasciato credere di poterla mantenere; l’esigua scorta di denaro si esaurisce in fretta e presto iniziano i dissidi. Ed ecco che prende possesso della camera accanto un ricchissimo uomo d’affari olandese, già adocchiato da Sylvie al Merry Grill perché inclinato giovialmente a spassarsela. Le stanze sono separate soltanto da una porta sprangata ed Élie, ascoltando ogni conversazione, può assistere dal buco della serratura alla consegna di una valigetta ricolma di mazzette da mille franchi francesi che Van der Coso, come lo chiama Sylvie sprezzante, si è fatto recapitare da un contabile prima della partenza per Parigi. La frustrazione che lo attanaglia, la gelosia per la ragazza sempre più sfuggente, lo stordimento febbrile, inducono Élie a un piano folle e criminale.
Con gli ultimi soldi che gli restano si procura una pesante chiave inglese presso una ferramenta, acquista un biglietto sul treno in cui viaggerà il magnate e riesce a fissare una cuccetta nel suo stesso scompartimento. Poi quando Van der Cruyssen si addormenta, lo ammazza a sangue freddo sfondandogli il cranio ferocemente, con violentissimi colpi. Una volta giunto a Parigi, alla Gare du Nord, guadagnando un tempo prezioso e confondendo le tracce, risale con la preziosa valigetta sul primo treno in partenza per il Belgio. L’efferato omicidio solleva un immenso clamore, i giornali ne parlano in prima pagina, le polizie belga e francese brancolano nel buio dal momento che il personale ferroviario non riesce a fornire indizi attendibili. Il ragazzo, per nulla preoccupato o pentito, sembra non rendersi conto del gesto assurdo che ha commesso. Sylvie, sgomenta ma più pratica, nel tentativo di metterlo al riparo lo allontana da Bruxelles.
A Charleroi, nel distretto minerario, vivono i suoi, e la madre conduce in casa una specie di pensione per studenti di scarsi mezzi. Lì nessuno sospetterà di lui. Il paese è freddo, tetro, afflitto da una pioggia incessante, sembra che il carbone annerisca perfino il cielo e l’aria. Alle tre e mezzo è già notte, la temperatura scende fino a 16° gradi sotto zero, le stanze sono gelate e i pensionanti si assiepano nella piccola cucina accanto alla stufa, unica fonte di calore della casa, dove la signora Baron cucina i modesti pasti. A Élie che ha pagato tre mesi anticipati, viene riservato un trattamento speciale: Antoinette, la sorella minore di Sylvie che aiuta la madre a sbrigare le faccende, accende la stufa nella camera del signorino, ne ammira la biancheria di seta, gli abiti di buon taglio, la sontuosa giacca da camera; e ascolta ammaliata i suoi racconti sulla vita brillante di Istanbul. Intanto però una o due mazzette dei franchi rubati sono stati spesi, la polizia conosce il numero di serie delle banconote e non tarderà a individuare una pista.
Gli eventi precipitano; compare in città un poliziotto tratteggiato come il futuro commissario Maigret: “Un uomo grande e grosso, con il cappotto e la giacca sbottonati che lasciavano intravvedere la catena d’oro di un orologio. Portava il cappello spinto indietro e fumava una pipa dal cannello ricurvo”. Per Élie che si è adagiato infantilmente in un benessere ovattato, avvolgente, come per un ritorno in famiglia, non ci sarà scampo. Nagéar è un individuo abietto, detestabile, il suo arresto dovrebbe appagarci; e invece interviene un colpo di scena che rimescola le carte e induce alla pietà. In un finale imprevedibile narrato come una sequenza cinematografica, assistiamo alla ‘traduzione’ del condannato verso il penitenziario all’Ȋle de Ré. Sul molo s’è radunata una ressa ingente di curiosi per vedere il giovane sanguinario trascinato in catene a scontare la pena insieme agli altri forzati. Ogni dettaglio è riferito con l’occhio asciutto del cronista: la nave su cui salgono gli ergastolani, la folla morbosa radunata come a uno spettacolo, i rituali e le varie fasi dell’imbarco. Confusa tra la gente compare Esther, la sorella di Élie giunta da Istanbul, elegantissima, trepidante, gli occhi fissi al binocolo per catturare ogni minima espressione sul viso del fratello avviato al carcere a vita e forse alla morte.
Un reietto senza redenzione. Se non fosse che in mezzo a quella calca da fiera scopriamo inaspettatamente anche la signora Baron, lei che non si è mai mossa da casa, sospinta da un invincibile dolore di madre a partire da Charleroi con un biglietto di terza classe.