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All'”Onu del Commercio” cosa avranno deciso?

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12 giugno. Sera, interno Reggia di Venaria. 1600 signore e signori di 120 Paesi del mondo si godono  la cena di gala che conclude il primo Congresso Mondiale delle Camere di Commercio svolto in Italia. A Torino. Sono imprenditori, rappresentanti di categorie produttive e del commercio che sono venuti  tre giorni a Torino per incontrarsi, confrontare e discutere problemi economici e organizzativi delle istituzioni che rappresentano.

La stampa locale (e anche nazionale in qualche caso) è entusiasta: rivendica, in modo un po’ provinciale invero il primato, “è la prima volta in Italia, a Torino, chissà quanto tempo passerà prima che torni non solo in Europa, ma nel nostro Paese…”, annota diligentemente le dichiarazioni altrettanto entusiaste degli amministratori locali, che sottolineano le ricadute economiche dell’evento, “vale 3 milioni di euro tra effetti diretti e sviluppi potenziali, trattandosi di ospiti dal portafoglio ben fornito”, o come si usa dire adesso “stakeholder  che sono opinion leader”, registra la soddisfazione degli albergatori e ristoratori  e non fa mancare una analitica descrizione del menù della regale cena.

Ma che si saranno detti i congressisti in quei tre giorni che qualcuno ha voluto avvicinare a Davos o a una sorta di Onu del commercio? Non è dato saperlo, anche perché i lavori erano ovviamente riservati  ai convenuti. Per i lettori  molta panna montata, poco gelato.

Negli stessi giorni le cronache americane ci rimandano le immagini di un affannato Presidente Obama  che corre al Congresso per cercare di convincere  i suoi parlamentari, specialmente democratici, a non “bocciare” la possibilità di conclusione delle trattative tra gli USA e i Paesi del Pacifico per un nuovo Trattato di libero scambio delle merci. Niente da fare. Sono proprio i suoi parlamentari, i democratici, a bocciare Obama, che su questa partita è invece appoggiato (tatticamente?) dagli avversari repubblicani, campioni di liberismo radicale. Questa bocciatura TransPacifica si dovrebbe portare dietro perlomeno un rallentamento della conclusione di un analogo Trattato (TTIP), questa volta TransAtlantico, che ci riguarda direttamente e che vuole scrivere nuove regole di scambi commerciali tra America ed Europa. E se sono proprio i democratici a bocciare il loro Presidente che vorrà dire?

Ne avranno discusso i congressisti a Torino o a Venaria, tra un filetto e una battuta al coltello di fassone? Non è dato saperlo, perché non l’hanno detto, ma nessuno gliel’ha chiesto. Provincialismo o sciatteria? Eppure con la rete il mondo è diventato il cortile di casa…

Sempre alla fine della scorsa settimana, a Strasburgo, il Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, rimanda in commissione  “perché ci sono troppi emendamenti” un testo che dovrebbe fornire un parere, anche se non vincolante, proprio sul TTIP, il Trattato tra Europa e America sul libero scambio. O perlomeno sulla bozza di questo Trattato (Transatlantic Trade Investment Partnership), che finora è sostanzialmente un oggetto misterioso ai più. Ne avranno parlato i nostri congressisti di Torino? È facile immaginare di sì, ma non è dato saperlo.

Abbiamo avuto convinti riconoscimenti alla bellezza di Torino, ai suoi musei, quello Egizio in particolare, alla vivacità cittadina; non un cenno su quello che bolle in pentola tra Bruxelles e Washington. Ma nessuno gliel’ha chiesto.

Eppure la faccenda  è grossa e tutto si tiene insieme. Dopo la crisi del 2008, partita dall’America peraltro, gli USA  rilanciano la carta di un’apertura globale dei mercati, superando protezionismi, barriere, normative bilaterali nella libera circolazione delle merci. È il vecchio sogno americano dello sviluppo illimitato: si può fare tutto purché lo si voglia.

Queste trattative però, imposte secondo i promotori dalla globalizzazione che spinge verso una concorrenza senza tregua Oriente e Occidente, Vecchio e Nuovi mondi, si svolgono per molto tempo in segreto, per non dare improvvidi vantaggi ai negoziatori concorrenti. Tutto questo nel quadro della ben conosciuta crisi del Sud Europa, che sta generando spinte e controspinte che fanno intravedere scricchiolii e fessure nell’edificio comunitario debolmente guidato da una classe dirigente con pochissima visione strategica.

Nel recente G7, tenuto nel castello bavarese di Elmau, di cui abbiamo potuto ammirare idilliche e agresti immagini di un gruppo rassicurante di persone quasi vacanziere (la narrazione per immagini pre-confezionate ha ormai ampiamente superato il livello di manipolazione della realtà), le parti  hanno concordato di concludere il negoziato entro l’anno, prima che finisca la Presidenza Obama.

Ma cosa c’e’ dentro questa scatola misteriosa? Il negoziato verte – spiega Franco Chittolina, già alto dirigente UE, su Apiceuropa.com, un sito specializzato in informazioni europee – sulla creazione di un unico mercato di libero scambio USA-UE, libero da barriere quali le differenze nei regolamenti tecnici, le norme e procedure di omologazione, con l’obiettivo di aprire entrambi i mercati per i servizi, gli investimenti e gli appalti pubblici. Non sono bruscolini, se si pone mente  al fatto che USA e UE detengono circa la metà del PIL globale. E non sarà casuale se Hillary Clinton considera il TTIP come una sorta di “Nato economica”.

I sostenitori dell’accordo  prevedono una crescita entro il 2027 per una famiglia media europea di 545 euro l’anno del proprio reddito! Non propriamente una vincita al superenalotto…… A patto che ci sia una sostenuta crescita dell’occupazione  e che l’euro tra 12 anni sia in grado di competere con il dollaro. Quello che par di capire è che siano elevati i rischi per l’Europa di finire perdente in molti settori di punta, tecnologie avanzate, energia, telecomunicazioni, digitale, servizi finanziari, difesa. Per non parlare di quello che potrebbe capitare nell’agricoltura, in particolare in Italia, così ricca di biodiversità alimentari e di produzioni di qualità. Ci avranno pensato all’Expo di Milano?  Non giungono echi particolari da oltre Ticino al riguardo.

Il  dossier è particolarmente complesso e dagli impatti rilevanti. Ma negli organi di informazione  avanza in ordine sparso e sembra quasi cogliere di sorpresa  gli addetti ai lavori. Se è così figuriamoci l’opinione pubblica, che magari avrebbe diritto a sapere se gli OGM saranno liberalizzati, se le prestazioni sanitarie diminuiranno, se la salute e il lavoro, che noi abbiamo perlomeno in Costituzione, saranno più o meno salvaguardati.

In caso di controversie la multinazionale di turno potrà ricorrere a un arbitrato privato anche con uno Stato, invece di osservare le leggi vigenti  riguardanti il contenzioso e il luogo in cui si determina.

Sì, perché c’è anche questo nelle misteriose bozze. Forse è il caso di aprire tutti e due gli occhi e tenere il faro sempre acceso su questa vicenda. A Torino, a Strasburgo e Bruxelles, a Washington. A Roma. E magari anche nelle redazioni, dal Piccolo di Trieste a La Sicilia di Catania, passando per le Televisioni nazionali e, perché no, anche la mitica Rete.


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