Ciao Laura Antonelli. Muoiono le persone, non i sogni

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Muoiono le persone, non i sogni. E Laura Antonelli che se ne va a 74 anni portando via il suo corpo tormentato e tornando nella luce che tutti ci attende, ci lascia di sé la scia abbagliante di una cometa, o il palpito della stella fissa di un firmamento cinematografico, lo star system italiano, di cui è stata per due decenni il volto più adorato. Confrontiamoci piuttosto con la sua immortalità, un destino che compete soltanto alle vere grandissime dive. Quando l’ho vista la prima volta, è riecheggiata spontanea nella mia mente la celebre frase virgiliana: “Incessu patuit dea”: dal suo incedere, dal suo avanzare, si rivelava per una Dea. Non è un caso che Giorgio Albertazzi chiamò l’attrice a interpretare la Gradiva, immagine indelebile di un bassorilievo pompeiano elevato da Sigmund Freud a simbolo senza tempo.

Nessuna indulgenza retorica, Laura era proprio così. Per quanto mi riguarda, pur non essendo inclinato agli amori astratti, platonici, virtuali, credo di non aver mai desiderato tanto una creatura dello schermo quanto è avvenuto per Laura Antonelli. E non parlo del film “Malizia” di Salvatore Samperi, che pure l’ha promossa a icona universale, ma piuttosto del “Merlo Maschio” diretto da Pasquale Festa Campanile, e delle ossessioni che aveva per lei, per il suo corpo, il marito interpretato da un tragico, portentoso, Lando Buzzanca che la immaginava compulsivamente in ogni posa e situazione in grado di rendere plastico il suo irresistibile erotismo. Anch’io al suo posto avrei provato per lei la medesima insaziabile follia, l’ansia voluttuosa di rivederla ritratta in tutte le possibili forme del creato.

Lei era Eva, la prima donna, la femmina del Paradiso Terrestre, la scoperta stessa dell’origine del mondo fissata sulla tela da Gustave Courbet. Laura era la dimostrazione più convincente dell’esistenza di Dio, l’esplosione originaria di ogni emozione sessuale, il big bang della coscienza del maschio, la rivelazione che il corpo desiderato di una donna è anche puro spirito come sostenevano i trovadori e i poeti del Dolce Stil Novo.

Con Federico Fellini si indugiava spesso a parlare di donne; lui aveva una rovente passione per Sandra Milo, io ero più inclinato verso Claudia Cardinale. Ma la volta che mi domandò quale fosse per me l’attrice più desiderabile in assoluto, non ebbi esitazioni: “Laura Antonelli”. “Hai ragione è fatta di carne”. Mi disse, riuscendo come quasi sempre a rivelarmi con una sola parola, da vero psicanalista, il turbamento che accarezzavo nel cuore. Laura era davvero pura carne femminile, la percezione esatta che una mano divina ne avesse modellato le forme a propria lode ed esaltazione. Per anni ho tenuto davanti agli occhi una fotografia in cui era coperta soltanto da una rete a maglie larghe: lei sorrideva con una margherita tra i capelli, e un ciuffo di petali a coprire lo scrigno di ogni malia. Incantevole, ammaliante.

Nella divisione convenzionale con cui i maschi distinguono nell’altro sesso tra fidanzate e amanti, lei rappresentava l’unica emanazione fantastica capace di ricoprire entrambi i ruoli, riconciliando gli opposti. Se invece di nascere in Italia – un po’ di straforo in verità, era di Pola, più croata che nostrana – avesse avuto in sorte di lavorare a Hollywood, sarebbe stata una meravigliosa diva internazionale, avendo dimostrato di essere anche assai dotata tra le mani di un vero autore. Nell’ultimo film di Luchino Visconti, “L’innocente”, tratto dal livido romanzo di Gabriele D’Annunzio, interpretava con una densità insospettabile un personaggio molto difficile e teneva testa con calamitante autorità a un istrione navigato come Giancarlo Giannini.

Ciò che seguì a quel nobile titolo non lascia quasi il segno; a parte forse l’eccezione di “Passione d’amore” dove dietro la macchina da presa c’era l’occhio vigile e avvolgente di Ettore Scola. Anche Dino Risi seppe dirigerla, soprattutto in “Sessomatto”, ma giocando virtuosamente con una bambola. Nella carriera della Antonelli mancò il regista capace di trasformarla non soltanto in una icona sexy ma in dea dell’empireo, traducendo in una storia accurata il suo magnetismo femminile, il mistero che nascondeva dietro gli occhi purissimi da bambina. Né Comencini (“Mio Dio come sono caduta in basso!”), né Patroni Griffi (“Divina Creatura”), né Bolognini (“Gran Bollito”), né Marco Vicario (“Mogliamante”) e neppure Luigi Zampa (“Letti Selvaggi”) o Tonino Cervi (“Il malato immaginario”), seppero mostrarsi alla sua altezza, sebbene questa espressione potrà sembrare a qualcuno sproporzionata. E sugli altri registi che la ingaggiavano per fornire un’esca dorata ai loro film fiacchi o sciatti non vale la pena soffermarsi. Ci si domanda come sia accaduto che, per “Malizia”, Samperi abbia avuto l’intuizione folgorante di chiamare proprio lei a interpretare Angela, la servetta in calze nere disputata tra padre e figlio, il meraviglioso Turi Ferro e l’imberbe Alessandro Momo. Una trama velenosa che in un improvviso rogo dei sensi rivelò la sfrenata passione degli italiani per gli amori ancillari e condusse Laura Antonelli a un popolarità esorbitante. Il film incassò cinque miliardi nel 1973, una cifra forse da moltiplicare per dieci, per venti, e anche più. Laura Antonelli, angelo di irraggiungibili delizie, sfuggì a tutti noi: fece invaghire di sé il più fascinoso degli attori francesi Jean-Paul Belmondò, se ne innamorò perdutamente lei stessa e spezzò per sempre il cuore ai suoi estasiati pretendenti di casa. Ma non a un romagnolo verace di Sant’Arcangelo, Burro, detto Rinò de Burre, che non se la prese più di tanto.

Lui, che rinnovava all’inverso il mito di Venere e Adone, continuava a sognarla tutte le notti facendo instancabilmente l’amore con lei. Insieme a Tonino Guerra girammo la sua intervista surreale, buffa e struggente nello special sul Casanova di Fellini; basterebbe quel documento per comprendere quale autentico squilibrio mentale Laura Antonelli fosse stata capace di provocare nella natura maschile. E per favore, lasciamo da parte i pettegolezzi sulla sua fine, sulla sua tribolatissima esistenza. Pensiamo alla festa di rivedere i suoi film, di assistere alla retrospettiva completa dei turbamenti che ci ha lasciato in dono. Con eterna gratitudine, preparando soltanto turiboli di incenso.


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