Non diffidate dello sport. Non cadete nel grande inganno costruito soprattutto dai mass media che ha prodotto una mostruosa contaminazione tra criminalità, politica ed economia, che pretende –a tutti i costi- una spasmodica ricerca del successo. La prima “vittima” di questa deformazione è stato il calcio. Troppo bello (dicono) e dannato, facile e diffuso a livello globale per conservare l’innocenza originaria. Così è diventato –specie in Italia- una specie di discarica maleodorante, metafora di una società che sguazza nel conflitto d’interessi ed ha il record mondiale –tra i paesi avanzati- della corruzione e delle infiltrazioni mafiose. Così il calcio, che forse non è mai stato davvero innocente, si è staccato dagli altri sport, perché era ed è troppo ricco, potente e viziato e –soprattutto in Italia- ancora troppo spesso dominato dalla violenza degli ultras, deformato dalle scommesse clandestine, strumentalizzato dalla politica, umiliato dall’ignoranza sessista ed omofoba dei suoi dirigenti, gonfiato a dismisura dai mass media e in particolare dalla onnipotente televisione.
Ma lo sport è un’altra cosa. Lo sport, come lo conosciamo oggi, è stato “inventato” in Inghilterra nell’800, quando la borghesia trionfante trasforma i tornei aristocratici, che simulavano la guerra, ma senza morti e feriti, nella sua nuova “ideologia”: competizione, innovazione, misurazione dei risultati, ma soprattutto regole, arbitri e rispetto degli avversari. Lentamente, ma non troppo, lo sport è diventato universale, aprendosi alle donne e alle diverse classi sociali, senza preclusioni su origini e differenze culturali. Lo sport è un’etica, un sistema di comportamenti e di valori che hanno conservato al proprio interno il principio della “cavalleria”, come dimostra il “fair play” del tennis o il “terzo tempo” nel rugby o gli avversari che si abbracciano e si sorridono dopo essersi “combattuti” lealmente. L’esempio più luminoso di questo reciproco rispetto ed ammirazione –se interessa ancora a qualcuno- è l’immagine di due volti giovani e sorridenti, uno bianco e uno nero: Jesse Owens e Carl Ludwing Lutz Long, che ai giochi Olimpiadi di Berlino (1936), sono rimasti amici nonostante la rabbia di Hitler.
Dentro lo sport si forma l’etica della responsabilità dell’individuo che deve prendere coscienza delle sue scelte. Anche se i filosofi spesso se ne dimenticano, lo sport è un condensato di cultura e di filosofia. Frequentando lo sport puoi davvero conoscere te stesso. Dentro lo sport, il dialogo tra psiche e soma diventa più sincero e profondo. Con lo sport scopri che davvero l’uomo è misura di tutte le cose. Lungo la strada dello sport, se hai la fortuna di avere come allenatore un certo Zarathustra, puoi diventare ciò che sei.
Lo sport –anche se il calcio sembra andare in direzione opposta- è stato all’origine della nostra (ri)civilizzazione, quando abbiamo dato regole ed obiettivi a dei barbari a cavallo facendoli diventare –almeno in teoria- dei “cavalieri” a difesa delle donne e dei deboli. Il peccato originale dello sport –secondo alcuni- sembra essere la “competizione”, la mentalità della “gara”, e quindi della vittoria a tutti i costi, che sembra essere il carattere distintivo della società contemporanea (capitalista). Ma la realtà è diversa. La “competizione” è dentro di noi, fa parte della nostra natura umana ed animale, di eros e thanatos, di paura e di aggressività. La cultura ha plasmato la natura dandoci regole di convivenza e attraverso la disciplina dello sport ha domato e trasformato –almeno in parte- la nostra aggressività in competizione e rispetto reciproco.
Dentro lo sport –quello praticato e vissuto e non certo in quello solo guardato e “tifato”- scopriamo in nostri limiti e proviamo l’emozione del miglioramento, ma sempre confrontandoci con l’altro, che diventa “noi” e misura di una crescita che spesso è reciproca. Lo sport, paradossalmente, è allenamento alla sconfitta perché insegna il binomio inscindibile tra fatica e risultato (anche se qualche volta viene tradito dal doping). La vittoria, se e quando arriva, è sempre effimera. Se e quando arriva, ha un sapore dolce, ma dura poco perché bisogna quasi subito stringere i denti ed allenarsi per la prossima gara e sperimentare così l’eterno ritorno. Solo se si impara dalla sconfitta, si può migliorare e sperare di –forse e prima o poi- vincere. Ci vorrebbe, allora, più sport, agonismo e rispetto degli altri, in politica, in economia e anche nella scuola, a condizione che tutti –davvero- abbiano le stesse opportunità di crescita e maturazione per scoprire e coltivare il proprio talento.
Lo sport è stato inventato per educare i futuri “gentiluomini”, ma adesso dovrebbe essere uno strumento fondamentale per formare i futuri cittadini e solo lo sport –forse- oggi riesce a conciliare l’eguaglianza dei punti di partenza con la misura del merito. Un barone francese, che ammirava gli inglesi, alla fine dell’800 ha inventato il più clamoroso e geniale spot pubblicitario di tutti i tempi: “l’importante non è vincere, ma partecipare”. Forse era solo retorica, ma personalmente voglio continuare a crederci.