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Si fa presto a dire “populismo”

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“Adesso si può davvero parlare di europopulismo”, ha scritto martedì scorso sul Corriere della Sera Massimo Franco, commentando lo scenario politico continentale anche alla luce dei risultati elettorali in Spagna e Polonia in un editoriale dall’inequivocabile titolo: Il contagio del populismo. Etichetta comoda, quella del populismo, che un po’ tutti, pure io, ovviamente, usiamo per archiviare cose dissimili, e che forse richiederebbero ben altri approfondimenti e analisi.

Come possono essere ricompresi in una stessa definizione fenomeni diversi, che vanno dal partito di Salvini al movimento fondato da Grillo, dall’iberica Podemos alla greca Syriza, dagli inglesi dell’Ukip ai polacchi di Legge e Giustizia? È tutto e solo populismo? Tutto e solo la medesima cosa? Populismo può essere affermare che la colpa è sempre degli immigrati, degli zingari e comunque di qualcun altro, o che “tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera” (“ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso in casa quando viene la sera”), ma lo è anche dire che non è giusto che l’un per cento della popolazione abbia e conti più del restante novantanove?

Quello che mi spaventa di una simile facile categorizzazione è il fatto, appunto, che sia troppo facile. E che spesso venga usata per incasellare, senza ulteriori sforzi interpretativi, tutti quei fenomeni che non sono quello che faremmo o vorremmo noi. Quasi come se, quando a scegliere fosse “la gente” (“perché è la gente che fa la storia”), e magari questa scegliesse di regolarsi diversamente da quello che noi riteniamo essere giusto, essa sbagliasse in quanto “populista”. A me sembra una semplificazione funzionale a supportare la teoria di chi giudica, ma nient’affatto una corretta osservazione delle cose.

Proviamo un’altra via. Supponiamo, così, per ipotesi, che questa gente non scelga a caso e che invece, per continuare sulle note del maestro De Gregori, nel momento “di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti che sanno benissimo cosa fare”. E se non è quello che faremmo noi, forse non è un loro problema. Al Corriere probabilmente non lo sanno (e come potrebbero), ma nel mondo, Europa e Italia comprese, ci sono pure quelli che, in questo sistema e da questo sistema, sono esclusi. Quelli che non hanno le loro stesse possibilità, le loro stesse risorse e i loro stessi interessi; nemmeno a difenderlo il sistema, intendo. Per essi, la tutela del suo funzionamento così com’è, non è un valore.

Vogliono dire come la pensano e cosa vogliono, questi che sono la gente e che gli altri chiamano populisti, semplicemente perché sono loro quelli che hanno “tutto da vincere o tutto da perdere”. Cosa ne sanno i ricchi opinionisti dei giornali importanti di quello che significa vivere con meno di quanto gli viene riconosciuto per le spese telefoniche? Cosa ne sanno di che vuol dire rischiare di perdere la casa perché una legge dice che la banca è la proprietaria del sudore che hai versato? Cosa  ne sanno del rischio di finire senza lavoro e senza un euro per un’innovazione di processo che magari il giornale per cui scrivono ha osannato come la migliore delle soluzioni possibili? Se il rischio è che salti il sistema, sarà il sistema delle alte tutele di quei fondisti a saltare, non quello di chi le proprie le ha già viste crollare, insieme alle possibilità che costantemente venivano negate e pure alla speranza che la sua situazione potesse un giorno cambiare ed essere migliore, perché il mondo è questo qui e non ci sono e non ci possono essere alternative, e senza che una riga d’inchiostro su quei fogli venisse versata.

Populismo? Se vi fa piacere, chiamatelo in questo modo. A me ricorda una storia narratami anni fa. Un signore, al paese, a un bracciante alle sue dipendenze divenuto comunista, disse: “sì, fatti riempire la testa con quelle sciocchezze. Se arriva il comunismo, ci sarà solo misera minestra, altro che star meglio”. “Forse”, rispose il cafone, “ma in quel caso, minestra povera per me, che tanto è quello, se non più, di ciò che ho adesso, e minestra povera anche per sua signoria”.


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