Quel che resta di Charlie Hebdo e della libertà

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Il ritorno alla “normalità” della redazione di Charlie Hebdo, sopravvissuta alla strage del maledetto 7 Gennaio in Rue Nicolas Appert, è quello di una testata senza casa, blindata nella sede di Libération, bersagliata da continue minacce sui social network e da polemiche infinite sui principi fondanti della libertà d’espressione, nonché lacerata da divergenze interne dovute proprio alle ferite ricevute, che ne minano la coesione editoriale.

Si era ripartiti, il lutto nel cuore e una copertina rosso-sangue, con un cagnolino in fuga e il giornale fra i denti, inseguito da una muta di personalità politiche e religiose, capeggiate da Marine Le Pen, e la determinazione a difendere la preziosa eredità di laicità, raccolta tra le macerie e i fogli intrisi del sangue di Cabu, Charb, Wolinski, Honoré, Tignous, e degli opinionisti di punta, Bernard Maris, economista, ed Elsa Cayat, psicanalista.

Il filo del racconto della complessa realtà odierna è ripreso, senza veli, con le note stridenti della provocazione a far da contrappunto. Con “libertà di coscienza,  pensiero e laicità”, secondo Gérard Biard, caporedattore della rivista, “che non vuol dire schierarsi contro le religioni, perché come si ha il diritto di credere, si ha anche quello di non credere. Esercitare un diritto non è una provocazione. La blasfemia è una forma di contestazione dell’autorità. Non siamo eroi, ma giornalisti, vignettisti, cittadini. E’ fuori discussione rimettere in causa l’onestà intellettuale e morale degli omaggi resi a Charlie. Suonerebbe come un insulto alla società civile, ai politici e alle istituzioni, della cui sincerità e dirittura morale non ci sono dubbi”.

A Place de la Republique  è stato eretto spontaneamente un memoriale della strage a Charlie e all’Hypercacher di Port de Vincennes, per preservare dall’oblio lo spirito dell’11 Gennaio e della “Marcia repubblicana”, che ha unito in un unico abbraccio una folla infinita e composita, perché solo la memoria collettiva garantisce l’autenticità dei fatti.

La “normalità” della rivista, però, viene messa continuamente in discussione anche dal dibattito sul “politically correct”, declinato come un mantra. Sembrano prevalere affannose divagazioni dottrinali, con mille distinguo sul concetto di tolleranza, mentre dovrebbe essere semplicemente il momento del ricordo. Sintomatica la contrapposizione tra gli intellettuali americani, che ha accompagnato la consegna del prestigioso premio “Pen Award” al settimanale il 6 maggio, per la sua testimonianza nel “pattugliare i distretti più estremi della libertà di espressione”.

E a coloro che s’indignano di tutto ciò che è fuori dagli schemi e non controllabile è stata  dedicata una  pagina centrale della rivista, dal titolo-manifesto “Anti-Charlie di tutto il mondo unitevi”. Fra gli editoriali graffianti e le vignette argute, spunta la caricatura del sociologo Emmanuel Todd (polemista autore del pamphlet “Qui est Charlie?”) con i pantaloni calati e il giornale grondante sangue usato come carta igienica.

Grande protagonista di queste ultime settimane è stata la leader del Front National, Marine Le Pen. E’ Luz a chiedersi in più vignette Cosa c’è di più disgustoso del sorriso di Marine Le Pen?”, facendola circondare da un bestiario umano riecheggiante le visioni grottesche e oniriche di Bosch. Ma poi, da bon viveur tratteggia un morbido nudo femminile, con le natiche adagiate su un fiore e l’invito: “Facciamo l’amore prima delle elezioni, per non votare da coglioni”.

Williams ha usato gli ingredienti agro-dolci dell’ironia, per disegnare angeli-demoni del Front National: facce truci di naziskin, ali abbozzate sulle spalle da energumeni, mazze da baseball e la paura “esorcizzata” a caratteri cubitali: “Le FN ne fait plus peur! Dédiabolisé à fond!”. È di nuovo la penna pungente di Luz a trasformare il regolamento dei conti in “Casa Le Pen”, il parricidio politico, in un atto di cannibalismo con Marine antropofaga, lo stecchino tra i denti, un occhio che esce dal sedere: “Come ho mangiato mio padre. La parte più difficile, è stata quella di espellere il suo occhio di vetro!”.

L’humour nero di Riss divide a metà la copertina con i profili di padre e figlia, urlanti minacciosi “Crepi Le Pen”. Fa riconoscere al Papa il genocidio armeno, sintetizzato da una piramide di teschi, a patto “che non ci siano dei pederasti tra voi”. La satira è per sua natura scomoda, cattiva!

Non arretra neanche davanti alle icone. “Pacco sospetto sulla Croisette”,  strilla l’ultimo  numero in contemporanea all’apertura del Festival di Cannes. “Falso allarme! E’ Catherine Deneuve”. L’eterna  “Belle de jour” è inscatolata in un cubo rosa come abito. I suoi commenti acidi sul grigiore di  Dunkerque (“città triste, di sera girano solo alcol e sigarette”), set del film inaugurale “La tete haute”, le ha attirato le antipatie della provincia e  la mortificazione della prima pagina. Ma la dissacrazione è sempre alternata alla spensieratezza. E’ la magia della “bande dessinée”!

Sfogliare le tavole di un fumetto, infatti, è un po’ come ascoltare la musica, far connettere il cuore al cervello, vedere il mondo attraverso un sorriso. Continuare a provare vibrazioni e sentimenti, intrecciarli a parabole di pensieri, senza limiti né frontiere. Lo sapevano bene Cabu, Charb, Wolinski, Honorè, Tignous, poeti dell’immaginazione, divulgatori di letteratura per immagini, sopraffatti dalla pesantezza del nostro tempo incerto, dominato dalle ombre scure che sovrastano il palcoscenico di una vecchia Europa, incapace di rinnovare i suoi codici culturali, dilaniata dallo spettro della globalizzazione, che mischia tradizioni e identità, soffocandone le differenze.

Loro erano laici per convinzione, non si sentivano dei blasfemi, ma solo credenti nell’uguaglianza della Ragione. Si ritenevamo dei giornalisti che amavano osservare lo spettacolo della vita e le sue discrepanze, e renderlo con il loro alfabeto colorato e punteggiato di brio. Quando c’era “l’insolenza” era in linea con la grande tradizione francese libertaria, anarchica e anticlericale, irriverente contro tutti i poteri e i conformismi, dissacrante di ogni forma di oppressione, che ha i suoi riferimenti storici nelle riviste satiriche “Père Douchesne”, “l’Assiette au Beurre” e nei ritrattisti André Gill e Honoré Daumier. Nel tempo erano diventati un obiettivo simbolico di una guerra alla quale non credevano, intenti da sempre a osservare le cose della vita con l’ironia dei coraggiosi, che non avvertono le minacce, perché lontane dal loro sentire.
“L’umorismo è etica, un’attitudine dello spirito”, spiegava  Wolinskj ,”un qualcosa in più che si ha o non si ha. Un umorista non è mai un laido, perché l’ironia implica una lucidità della vista sulla propria epoca, sa svelarne tutte le menzogne. Un buon umorista per me deve essere ateo, non cerca mai di dividere il vero dal falso. Lui ride dell’uno e dell’altro e non appartiene a nessun partito”. Considerava Victor Hugo, il magnifico illustratore accanto al romanziere di impegno civile, uno dei suoi maestri. ”Disegnare è sognare sulla carta”, diceva, “i disegnatori vivono dentro i sogni. Si sentiva essenzialmente un  giornalista: questa è la mia passione, il mio mestiere di vivere. Ho avuto la chance di vivere in Francia, nel paese più libero del mondo, ma tutto ciò potrebbe modificarsi. Continuerò ad essere irrispettoso, a difendere così la tolleranza. Finché sei libero, susciti intolleranze. Se sei, invece, intollerante sollevi le reazioni della libertà”.

Il tratto rotondo, pieno, classico del suo stile, è impietoso nel mettere a nudo il potere. Una vignetta che ritraeva Marine Le Pen in pellegrinaggio a Lourdes, con la dicitura “Miracolo, posso alzare il braccioa simulare il saluto nazista, lo portò sino in tribunale. L’ex-presidente Giscard d’Estaing aveva la testa a forma di lampadina, e quando pensava a Disneyland si entusiasmava: “Bella come la festa de L’Humanité, ma senza i comunisti”.  Mentre per la classe operaia nulla è più bello di brindare con vino rosso e di pensare a fare sesso. Amava le donne e le ritraeva abbondanti, rassicuranti, dispensatrici di desideri e buon umore; così come gli piaceva abbandonarsi ai sentimenti e all’introspezione con infinita delicatezza, lasciando scorrere le sue linee morbide sul foglio, per poi focalizzarsi sul lato fragile e profondo dell’esistenza: un dialogo surreale sulla solitudine, all’ombra di un albero spoglio, fra una ragazza e una pietra; oppure un omino in cima alle Falesie, mentre osserva il calar del sole ed esclama, “nulla sarà come prima”.

Stéphane Charbonier, detto Charb, nascondeva lo sguardo acuto sotto le spesse lenti da miope. Aveva un debole per la cioccolata e per gli ideali libertari. Non concepiva di “vivere in ginocchio; difficile in tempi in cui si è perso il senso dell’umorismo”, con il rischio incombente del “Trionfo del pensiero unico” da lui raffigurato come un ridicolo ometto dal grosso naso e dallo sguardo ebete, un pallone per cappello e l’interrogativo: “Cosa c’è oltre?”. Oltre, per lui, c’era la riflessione, la dimensione disincantata delle cose. “Le idee precedono sempre il disegno, che ne è la puntualizzazione”. Si definiva “limitato graficamente, senza grandi divagazioni liriche, con invece molte virgole e punti esclamativi, per dare il giusto ritmo e far ridere”.

Erano la vita quotidiana, la fatica di vivere, il centro del suo lavoro, “non mi sento specializzato sull’ateismo e sulla lotta antireligiosa”, diceva, “preferisco parlare di lavoro e di disoccupazione più che del Papa o dell’Islam; se fossi credente, sarebbe per me un peccato d’orgoglio difendere il mio profeta o il mio Dio. Dio è teoricamente al di sopra”.  Con irriverenza disegnò un Cristo col naso penzolone e un ditone alzato, che alla domanda se si potesse prendere in giro la parola di Gesù, rispondeva: “Ma in quanto ebreo o in quanto cristiano?. La stessa impertinenza la riservò a Maometto, mettendogli una pallina rossa da clown sul naso. Dire che l’Islam non è compatibile con l’umorismo è così assurdo, come pretendere che l’Islam non sia compatibile con la democrazia o la laicità”. La sua creatività la spiegava così:”Quando disegno un vecchio pedofilo, non getto l’infamia su tutti i vecchi né lascio intendere che tutti loro sono pedofili. Ho disegnato solo un vecchio pedofilo, null’altro. La sua filosofia di vita e il suo disincanto sono racchiusi nel fumetto filosofico che lo ha reso celebre, “Maurice et Patapon”, cane e gatto a confronto; un estratto dei comportamenti esistenziali di due tipologie umane. Maurice, pacifista, onesto, estroverso, goffo,credulone e di sinistra. Patapon raffinato, schizzinoso, cinico, litigioso, furbo e conservatore. Da poco è uscito il suo libro postumo, “Lettera agli imbroglioni dell’islamofobia che fanno il gioco dei razzisti” (ed. Les Eschappés), una sorta di profezia di quanto poi tragicamente è avvenuto: “Charlie Hebdo sarebbe diventato più pericoloso di AlQaida! Charlie giustificherebbe l’esistenza di gruppi terroristici che si richiamano all’Islam. Disegni subito qualificati per islamofobici legittimerebbero un’azione da assassini. A causa delle provocazioni di Charlie, sarebbe quindi normale attendersi reazioni violente”.

Jean Cabut, in arte Cabu, si definiva un “disegnatore pubblico”, pensava che “è il disegno stesso a scovare il dettaglio di un personaggio, a determinarne l’efficacia, a far ridere e nello stesso tempo a far riflettere: l’umorismo è il rifiuto delle certezze”. Era solito passeggiare senza meta, a passo di “flaneur”, per le vie parigine, perché era la strada la sua fonte di osservazione, il luogo dove “ritrovare l’aria del tempo e imbattersi nella commedia umana”. Per descrivere la “commedia del potere” si metteva, invece, a tavolino “perché il disegno è pieno di artifici. C’è dell’illusionismo, un qualcosa di inesplicabile: è misterioso come un giorno ti trovi a disegnare Sarkozy con le corna. E’ lo charme del disegno”. Lo stesso che ispirò la rappresentazione perfida di “Ségoléne. La dame du Catéchisme” nel giorno della Festa della mamma, circondata dall’amore filiale e da un collier con le teste dei suoi avversari politici.

La crisi dell’Euro ha le fattezze di una muscolosa Angela Merkel inguainata in tutina nera nello sforzo ginnico di sollevare la moneta, ai cui bordi si aggrappa  un disperato Sarkozy sgambettante nel vuoto. Dietro le sue lenti da miope, Cabu nascondeva un’infaticabile creatività, scandita a ritmo di jazz, filo rosso della sua esistenza, cui dedicò una splendida pubblicazione Une petite histoire du swing de Louis Armstrong à Miles Davis” (ed. Bd Music livre).  Ha segnato un’epoca e un modo di essere con i suoi personaggi, che hanno attraversato la storia del fumetto, come: “Le grand Duduche”, giovane idealista post-sessantottino (“il solo personaggio positivo da me inventato”) e “Le grand Beauf”, patron di bistrot dai grandi baffi, maschilista, reazionario e xenofobo (“ho dato vita a un tipo a metà strada tra il coglione, il parigino e il Bobo”. Beauf è sempre un altro; i disegnatori vivono sull’imbecillità e questa non regredisce mai”.

Philippe Honoré era un uomo mite e un disegnatore dal tratto forte, espressionista; privilegiava i contrasti netti del bianco/nero e i colori primari intensi, per catturare l’attenzione e risvegliare la visione miope della realtà, così da stimolare inattese tensioni emotive. Incorniciava i suoi lavori con perfette geometrie, anche la sua firma era contenuta in un minuscolo quadrato, nascosto tra le righe. Aveva la perfezione grafica e l’immediatezza dei grandi caricaturisti del XIX° secolo, la passione per la letteratura e la lingua scritta, tanto da essere illustratore dell’Enciclopedia Larousse e delle riviste letterarie “Lire” e “Magazine litteraire”. Preziosi documenti del suo genio restano i “Rebus litteraires”, giochi di parole nascoste tra oggetti colorati: “mi rende felice creare un gioco intellettuale, in cui le persone si possono divertire a trovare soluzioni”. Enigmi e tasselli di assonanze per ingannare il tempo e regalare istanti di gioia.

Bernard Verlhac si firmava con il nomignolo che lo accompagnava sin da bambino: Tignous (piccola tigna). Se i suoi disegni sull’attualità erano implacabili, il suo sguardo tradiva una dolcezza malinconica, intrisa ad una gioia di vivere, che riassumeva così: “per me sono fondamentali due cose, l’amicizia e le mie matite colorate.  Il mio mestiere è disegnare, cercare di condensare la realtà e la cronaca dentro una sola immagine. Il disegno satirico di un giornale è l’opposto di un fumetto, deve concentrare tutto in una sola immagine”. Suscitare curiosità, aprire una finestra sull’apatia contemporanea, smascherare l’ipocrisia dominante era il suo mestiere. Conosceva bene il mondo degli umili, la vita grama di chi vive sempre “dietro le quinte”. Le questioni sociali erano centrali nel suo lavoro. Il disastro del capitalismo decadente lo analizzò con straordinaria lucidità in “Le fric c’est capital”(ed. 12bis): uno sguardo corrosivo sulla crisi e lo strapotere delle banche e delle finanze, affrontati con colori sobri e movimenti grafici veloci e filiformi. “I quattrini” sono al centro della scena: chi ne ha così tanti, come il banchiere sprofondato in una poltrona fatta di mazzette di banconote; e chi non ne ha, tanto da usare l’ultima cravatta per impiccarsi. “Il denaro non ha odore”, esclama uno dei suoi protagonisti, “ma la sua mancanza un odore ce l’ha”. Il capitalista è dipinto avido, grasso, enorme e informe nelle ineleganti grisaglie, il sigaro tra le dita e la dentatura da pescecane. Apostrofa gli umili, resi minuscoli, raggrinziti e dalle spalle incurvate, con sentenze lapidarie: “Frequentare i poveri è molto arricchente! Nell’epoca in cui tutti rischiano di morire di febbre aviaria, voi vi preoccupate del mio stipendio esorbitante?”

Un accenno di ribellione è solo un pugno chiuso che sfonda il coperchio di una bara con sopra scritto: “Lutto di classe”. Sui temi dell’ecologia liberava la sua anima romantica in raffinate divagazioni calligrafiche, con le avventure dei “Pandas dans le brunes”. Vittima della crudeltà dell’uomo e della sua insaziabilità, dopo l’abbattimento delle foreste di bambù, al panda non resta  nulla, se non contemplare sconsolato il “Grido” senza fine di Edward Munch.

La loro arte e la loro sete di libertà fuori dai conformismi, sono ora raccontate nel film documentario, presentato a Cannes, “L’Humour à mort” di Daniel ed Emmanuel Leconte,un omaggio agli amici che sono morti per una certa idea della Francia”.


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