L’alpinismo mondiale deve molto al Nepal, non è giusto che a distanza di un mese dal terremoto, questa catastrofe sia scomparsa, non solo dalle prime pagine, ma dalla stampa internazionale. Questo è quello che temevo e questo sta accadendo”. La scalatrice e scrittrice carnica Nives Meroi, a un anno di distanza dalla salita alla vetta del Kangchendzonga (8586 al confine fra il Nepal e l’India),12esima cima dei 14 giganti al mondo, avvenuta il 19 maggio del 2014 in cordata con il marito Romano Benet, è convinta che soprattutto in questo momento ci sia bisogno di non dimenticare questo paese e i suoi abitanti. “In tanti sono mobilitati anche nel nostro paese per dare aiuto a questo paese che già prima di questa catastrofe era uno dei più poveri al mondo. Ora c’è un motivo in più per andarci; hanno bisogno del turismo, dasempre una delle poche fonti di ricchezza.Sono molte le associazioni che si danno da fare con onestà, non è vero che ci sono solo speculazioni e secondi fini. Non dobbiamo smettere”. Il pensiero di Nives Meroi va alle persone con le quali ha condiviso le sue missioni alpinistiche, ogni passo una conquista. “In questo momento stanno arrivando i monsoni, questo significa che tantissime persone sono senza riparo, sotto una pioggia senza fine che rende tutto un acquitrino, senza cibo e medicine, in un paese dove i campi sono franati e gli animali morti. In queste condizioni se non arrivano gli aiuti non è possibile fare da soli. Inoltre la mancanza di cibo e medicine rende alto il rischio di epidemie”. Molti luoghi che Nives ricorda non ci sono più, villaggi lungo il percorso e quartieri di Katmandu. “Io ho vissuto il terremoto in Friuli nel 1976, non c’era la protezione civile allora, ma sapevamo che qualcuno sarebbe venuto ad aiutarci. Due eventi dunque che non posso essere paragonati. Il mondo occidentale non deve smettere di inviare aiuti perché sono sicura che vi sono zone non ancora raggiunte dai soccorsi, aree difficili da raggiungere per mancanza di strade, dove i sentieri sono franati, lasciando villaggi e paesi completamente isolati”. Nives sa che il Nepal che lei ricorda non esiste più se non nella pagine e nelle fotografie del suo libro “Non ti farò spettare. Tre volte sul Kangchendzonga la storia di noi due raccontata da me” (pagg. 260, euro 17), pubblicato da Rizzoli e uscito pochi giorni dopo l’inizio della tragedia. Un libro che racconta l’esperienza di scalatrice e donna, nel suo misurarsi con la potente vastità della montagna, senza avere la presunzione di conquistarla. “Io dico sempre che, dopo vari tentativi, siamo giunti alla cina perché la montagna, il suo spirito, ci hanno permesso di farlo”.
Ma il libro non è solo cronaca di una grande impresa sportiva, è anche la storia della lotta contro la grave malattia di Romano, manifestatasi proprio quando del 2012 stavano per raggiungere la vetta.
Un anno dopo la vostra ultima missione in Nepal esce questo diario che racconta l’ascesa ma anche la fedeltà a scelte etiche in momenti difficili, come è nata l’idea?
Mia sorella Leila è stata la prima a capire che c’era una storia da raccontare per quanto accaduto nel 2009 al campo Base del Kangchenzenga. Dopo la decisione di non proseguire a pochi metri dalla cima, visto che Romano non era in grado di completare l’ascensione, mi sono trovata in uno stato di confusione mediatica. Tanta era la pressione di giornali, tv e sponsor sulla corsa femminile agli 8000. Lei per prima mi ha fatto capire che avevo scelto l’integrità della coppia e della cordata, io ero così frastornata da non essere in grado di dare voce la pensiero che mi aveva fatto agire.
Si è mai pentita di essere tornata indietro?
Assolutamente no, penso che la vita è più importante di tutto, del risultato sportivo e del ritorno economico. Ricordo bene come ho preso la decisione, in una manciata di secondi, sapendo che condizioni atmosferiche così estreme, richiedevano rapidità di azione.
Definisce questa narrazione una commedia, perché?
E’ una storia ambientata in montagna nella quale si parla della vita di tutti i giorni, del rapporto di coppia, dei problemi, di tutti i grigi e i rovesci che capitano nell’esistenza, fuori ma anche dentro di noi. Tutti eventi e sentimenti che ci fanno crescere.
Cosa ha significato scriverne?
Ho rivissuto in modo intenso quel periodo, soprattutto gli anni della malattia di Romano, la sua sofferenza e l’incertezza sui risultati delle cure e degli interventi. Una sfida che noi consideriamo il nostro 15esimo ottomila. Scrivendo mi sono resa conto che ricordare le esperienze alpinistiche significa renderle reali, rivivere una grande emozione da condividere con altri .
Cosa è cambiato nella prospettiva di visione dei fatti?
Scriverne mi è stato utile. La storia c’era ma ho avuto bisogno di molto tempo per trovare il mio modo di raccontarla. Ho cercato una visione distante emotivamente e allo stesso tempo ho seguito il cerchio degli avvenimenti che poi si è chiuso in modo positivo. Nel racconto mi metto a nudo mostrando coraggio e paura, conquiste e fallimenti, tutte tappe del percorso che è la vita. Mi esprimo con un’immagine: una scalata è la somma di passaggi, ognuno è la conquista di un equilibrio superiore. Ogni passo si ricomincia, cercando la giusta bilanciatura, dosando movimenti opposti. Anche la vita richiede di far conciliare opposti, fuori e dentro noi.
Quanto tempo per arrivare alla fine di questo libro?
Il tempo della scrittura è stato relativamente breve rispetto a quanto richiesto dalla definizione di come raccontare la storia.
Ricostruire gli eventi è stato difficile?
Abbastanza, non avevo appunti, in quelle condizioni sono altre le priorità. Romano è stato fondamentale, abbiamo ricostruito le ore e i giorni. Come sempre lui ha una visione concreta, oggettiva e pragmatica. Mi ha aiutato a delineare un quadro completo e ampio dei fatti, anche se poi, per quanto riguarda la sua malattia, io la racconto dal mio punto di vista diverso dal suo.
Come gestisce la popolarità, lei per carattere schiva?
Sto imparando. Mi piace quando la gente mi dimostra simpatia, non mi interesse la notorietà ma le occasioni di incontro che ho nelle presentazioni pubbliche delle nostre esperienze
Prossimi impegni?
Ritornare il prima possibile in Nepal, anche solo come turisti, per non lasciarli soli e dare una mano. Hanno bisogno di gente che porti lavoro.
A quando la partenza?
Decidiamo all’ultimo, è nel nostro stile, ci bastano 15 giorni per essere pronti.