Qualche giorno fa c’era qualcosa di nuovo a Udine: il più grande laboratorio di pace che l’Italia abbia mai visto.
“Cara mamma, un saluto in fretta anche stamattina. Niente di nuovo: le solite vicende di temporale e di sole, e lo spettacolo di un’azione che si intravede e si sente rumoreggiare sui monti circostanti. Noi sempre al nostro posto, con molte faccende dei servizi di seconda linea”. Una seconda linea che, tuttavia, non gli consentì di sopravvivere alla Grande Guerra: alcuni giorni dopo aver scritto questa lettera, Renato Serra cadde in combattimento sul monte Podgora. Era il giugno del 1915.
In una giornata calma e silenziosa, il bollettino di guerra del Comando Supremo tedesco si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Nello stesso giornata – era l’ottobre del 1918 – Paul Baumer, il protagonista del libro di Remarque, fu trovato con la faccia sul terreno. Sul volto un’espressione serena, quasi fosse contento di morire. L’autore descrive le vicende di alcuni studenti arruolati nella guerra contro la Francia, convinti che li stia aspettando una bella avventura perché così raccontano i loro insegnanti e la propaganda tedesca. Pochi giorni e si capisce che l’avventura è una tragedia. Paul durante un attacco si nasconde in un cratere fingendosi morto. Un soldato francese, un suo nemico, salta nella stessa buca per salvarsi. Paul, preso dal terrore, lo pugnala. Alla vista dell’avversario agonizzante tenta di bloccare la ferita, ma quando il francese muore e dalla tasca scivola la foto della moglie, Paul si promette di scriverle e di dedicarle il resto della sua vita, perché quella persona distesa lì davanti non è più un nemico ma un essere umano. Ripudiando, in tal modo, lo stesso meccanismo che, facendo leva sulla retorica della guerra bella ed epica, della patria e dell’onore, convinse una generazione a immolarsi in un immane macello. I personaggi del libro muoiono nel fango delle trincee, asfissiati dai gas, devastati dai proiettili di amici e nemici, negli ospedali di guerra.
Alcune settimane fa c’era qualcosa di nuovo a Udine, la capitale della guerra durante la Grande Guerra, dove 100 anni fa alloggiava il Re ridicolizzato nella descrizione che ne fa Hemingway nelle pagine iniziali di Addio alle armi. Proprio lì alcune migliaia di ragazzi accompagnati dagli insegnanti hanno partecipato al più grande laboratorio di pace che l’Italia abbia mai visto. Prima nelle scuole – in particolare in quel liceo Stellini in cui alloggiava il generale Cadorna, Comandante supremo dell’esercito – poi in quelle trincee del Carso che avevano visto centinaia di migliaia di ragazzi appena più anziani scannarsi “senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria”, com’è stoltamente scritto nella tomba del milite ignoto all’Altare della patria. In una dolina di quelle trincee un artista, Joshua Cesa il suo nome, ha rappresentato plasticamente il sangue versato: una struttura reticolare cubica (lo ha chiamato In-Cubo) di 6 metri di lato, rivestita da un manto rosso. Il suo volume – 216 metri cubi – corrisponde al sangue di 40000 soldati. Nel Carso ne morirono infinitamente di più.
Il 25 aprile scorso c’era qualcosa di nuovo a Fragheto, che con Tavolicci ripropone la festa della liberazione. Centinaia di persone, in ricordo di recenti stragi, ripropongono e riversano il loro impegno perché non si ripetano mai più. Perché è folle l’idea della guerra, come sosteneva Einstein e come sostiene papa Francesco, riprendendo il “Bellum a ratione alienum” della Pacem in Terris.
Hanno a che fare queste novità con i drammi dei migranti che si muovono dalle loro terre e a migliaia muoiono nelle acque dei nostri mari? Sì che hanno a che fare se è vero che quelle migrazioni hanno origine nelle guerre e nelle disuguaglianze che dalle guerre traggono origine.
Hanno un legame queste novità con le torsioni istituzionali che questo governo sta producendo, con una determinazione pari alla cattiveria con cui sono imposte? Sì, che hanno un legame se è vero che ogni restringimento della democrazia, ogni riduzione del potere nelle mani di pochi (di uno) che anziché governare la complessità chiedono obbedienza (facile nell’Italia dei trasformismi), comporta una minor partecipazione alla cosa pubblica financo a consegnare la possibilità di dichiarare guerra a un’infima minoranza d’italiani.
Queste novità – è la cultura della pace – intendono fare argine all’una e all’altra cosa, alla guerra, alle disuguaglianze e alle deformazioni costituzionali. Perché la politica è anche questa, anzi è soprattutto questa. Nulla a che vedere con l’arroganza di questi tempi.
Da perlapace.it