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“Molti intellettuali antifascisti hanno avuto alle spalle un passato fascista. Quanto siamo liberi di parlarne?” Intervista a Mirella Serri

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Mario Alicata, Carlo Muscetta, Elio Vittorini. Ma anche Roberto Rossellini, Carlo Lizzani e  Carlo Emilio Gadda. Sono questi, e molti altri, i nomi degli intellettuali della sinistra antifascista che, dal ’45 in poi, hanno cercato di cancellare le tracce della loro collaborazione al fascismo. Segni che, però, sono inevitabilmente riemersi, anche grazie all’avvento di una visione più critica – e meno dogmatica – su questa tematica. Intervistiamo oggi Mirella Serri, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università “La Sapienza” di Roma e giornalista per La Stampa, che si occupa da molti anni dell’argomento. Quanta libertà c’è nel trattarlo?

Ne «I Redenti», libro edito da Corbaccio nel 2009, lei racconta la storia di numerosi intellettuali protagonisti della vita culturale del secondo dopoguerra e della loro “doppia vita”. Si tratta, infatti, di pensatori di spicco nel mondo dell’antifascismo, ma che allo stesso tempo hanno dato il loro contributo intellettuale al Ventennio. Quanta libertà pensa che ci sia nel trattare oggi questo argomento?
Credo che oggi ci sia abbastanza libertà nel trattare questo argomento, anche se questi “viaggi nel passato” possono ancora suscitare problemi per qualcuno. È emersa, infatti, un’intera classe dirigente che ha sentito in maniera molto forte il bisogno di mascherare questo suo passato; è chiaro, allora, che l’emergere di quest’ultimo ha creato – e crea tuttora – dei problemi e delle perplessità, anche nei parenti di chi ormai non c’è più. Chi racconta un passato, entra inevitabilmente in conflitto con quello che questi intellettuali hanno cercato di cancellare.

Molti di questi intellettuali hanno creduto davvero nel fascismo e hanno scritto sui giornali del Regime non soltanto per le sovvenzioni economiche. Perché, secondo lei, è così difficile credere che alcuni volti noti dell’intellighenzia di sinistra (Carlo Muscetta, Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda – giusto per farne qualcuno) abbiano partecipato attivamente e consapevolmente all’edificazione culturale del fascismo, anche dopo le leggi razziali? Viene davvero vista come una macchia indelebile?
Non si può rispondere a questa domanda senza contestualizzare l’epoca in cui si sono trovati a vivere e operare questi intellettuali. Si tratta, infatti, di pensatori di primo piano nel Secondo Dopoguerra: siamo in piena Guerra Fredda e anche in Italia c’è uno scontro ideologico molto forte, che non ammette sfumature fra il bianco e il nero e che obbliga gli intellettuali a schierarsi su una posizione ben precisa. Inoltre, il “muro contro muro” tra fascisti e antifascisti si protrae e si radicalizza anche a causa della consistente presenza del Msi e delle sue rivendicazioni nostalgiche. Il contrapporsi della sinistra radicale all’estrema destra non lascia scelta: gli intellettuali che avessero confessato il loro contributo al fascismo, sarebbero stati automaticamente estromessi dal versante politico della sinistra.

Qualcosa, tuttavia, deve essere cambiato dai tempi in cui Mario Alicata – uno dei principali organizzatori della vita culturale del Pci negli anni Cinquanta – fece ritirare dal commercio «Il lungo viaggio attraverso il fascismo», libro in cui il suo autore, Ruggero Zangrandi, raccoglieva e pubblicava i contributi di molti intellettuali al fascismo. Pensa che questa “apertura” sia dovuta unicamente ad un fattore temporale – e anche alla scomparsa di molti dei “redenti” – o che sia merito di chi ha portato avanti una visione critica sull’argomento?
È cambiato molto da quegli anni, anche se tuttora esiste una forte contrapposizione ideologica, accentuatasi dopo il ventennio berlusconiano. Comunque, direi che un ruolo particolare in questo frangente è stato giocato da alcuni studiosi che hanno inaugurato una visione critica sull’argomento. Primo fra tutti Renzo De Felice, che con i suoi studi sul fascismo ha rivoluzionato la tradizionale interpretazione storica del Ventennio, ma che allo stesso tempo proprio per questo ha avuto una vita difficile. Ancora oggi, De Felice è visto come uno “spauracchio” da alcune frange della sinistra conservatrice.

Quelle di questi intellettuali sono storie che, seppure venute a galla, non sempre sono note e sembrano ristagnare nell’ambiente accademico. Se lei dovesse esprimersi riguardo il grado di conoscenza di questi fatti da parte dell’opinione pubblica, cosa direbbe? Pensa che ci sia ancora molta strada da fare?
Sicuramente c’è ancora molta strada da fare. A livello di opinione pubblica non si sa molto, si tratta di un dibattito che circola per lo più in ambito intellettuale. Ma  anche per gli studiosi stessi ci sono ancora molte cose da scoprire. Un esempio di questi processi è la figura di Giaime Pintor: simbolo della Resistenza e del Partito Comunista per anni, in realtà Giaime Pintor era sì antifascista e partigiano, ma non aveva assolutamente niente a che vedere con i comunisti. Credeva nella Resistenza appoggiata dagli Alleati e proprio da questi ultimi aveva ricevuto dei finanziamenti. Una realtà storica che, però, è ancora ignorata da molti.


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