Letta e il bisogno di un’ideologia europea

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Cogliamo l’occasione dell’uscita del suo nuovo saggio (significativamente intitolato “Andare insieme, andare lontano”) per tornare ad occuparci di un personaggio che abbiamo sostenuto, difeso e talvolta anche criticato nei dieci mesi in cui ha avuto l’onere e l’onore di guidare il governo. Stiamo parlando di Enrico Letta, tornato in libreria con un’opera di cui basta osservare la copertina per comprendere che è l’antitesi del renzismo: tre bambini che giocano con una macchina giocattolo e sotto il titolo una frase che induce a riflettere: “Come dice un proverbio africano, se vuoi correre veloce vai da solo, se vuoi andare lontano devi farlo insieme”.

Rimarrebbe, tuttavia, deluso chi dovesse acquistare l’opera nella speranza di trovarvi all’interno strali o frecciate dirette all’indirizzo di colui che prima gli ha detto via Twitter di stare sereno e poi, un mese dopo, lo ha spodestato da Palazzo Chigi, al termine di una drammatica Direzione del PD. Qualche puntura di spillo qua e là c’è, ci mancherebbe altro, ma non è nello stile del personaggio esporsi in maniera diretta né, tanto meno, lasciarsi andare a vendette personali, sfoghi sguaiati o rivendicazioni di superiorità morale e intellettuale purtroppo non estranee a una parte della sinistra. Letta no, non usa praticamente mai la parola io: una scelta frutto degli insegnamenti del professor Andreatta, suo mentore, e delle diverse esperienze di governo durante le quali, come rivendica fin dal titolo, ha capito che o la politica riscopre, a tutti i livelli, una dimensione solidale e comunitaria o è destinata a scadere nei personalismi e nelle rendite di posizione di chi non riesce né ha alcuna intenzione di immaginare un domani.

A tal proposito, è bene segnalare che questo saggio, su un punto, si pone in continuità con i precedenti: la critica al “presentismo”, già aspra in “Costruire una cattedrale” e viva anche nel dialogo sull’Europa (“L’Europa è finita?”) scritto a quattro mani con Lucio Caracciolo, viene riproposta qui sotto forma di monito ad evitare gli eccessi di velocità, le approssimazioni, le sbavature e le riforme fatte in fretta e male pur di dare l’impressione di star facendo qualcosa, di essere dinamici e volitivi, e il richiamo finale alla saggezza dei contadini della Gallura possiamo dire che è, al tempo stesso, una riflessione sul come si governa un paese in difficoltà come l’Italia e un primo bilancio di vita sugli esempi e le lezioni ricevute.

C’è, però, un aspetto in quest’opera che marca una netta discontinuità rispetto al passato. Per anni, infatti, di fronte alla dirompente ascesa del Rottamatore, i critici meno avveduti hanno sproloquiato di “lettarenzismo”, mettendo in risalto i punti in comune fra i due: la provenienza dal mondo cattolico, il trasversalismo, i richiami alla modernità e anche qualche esponente di primo piano passato, nell’ultimo anno, dall’uno all’altro senza colpo ferire, in base alla considerazione – a nostro giudizio miope – che Letta è il passato, per quanto rispettabile, e Renzi è il futuro, per quanto denso di incognite.

E onestamente, anche persone che stimano e vogliono bene all’ex presidente del Consiglio non si sono potute esimere dal mettere in risalto che una delle migliori creazioni del “vecchio Letta”, ossia l’incontro estivo di VeDrò, contenesse in sé i semi dell’intuizione geniale ma, purtroppo, anche i germi della degenerazione fatale. Come tutti gli errori commessi in buona fede, infatti, la scelta di far ritrovare in Trentino persone con idee, storie e collocazioni politiche diverse era, nelle intenzioni di Letta, il tentativo di uscire dall’anomalia italiana di uno scontro asfittico e violento, feroce e inconcludente, i cui danni li stiamo pagando a carissimo prezzo e, probabilmente, continueremo a pagarli ancora a lungo e con noi le future generazioni. Ciò che non aveva messo in conto, il nostro, è che lui pensava a un dialogo civile e garbato, propositivo e volto a trovare punti di incontro e di confronto, al termine del quale, però, ognuno tornasse a casa propria; con l’avvento delle larghe intese, invece, la spregiudicatezza di Renzi è riuscita a incunearsi in quel mondo e a trovare un terreno fertile per narrare al Paese la favola del Partito della Nazione che contiene tutto e annulla ogni differenza, ribaltando lo spirito originario della kermesse e trasformando alcuni dei suoi protagonisti nei perfetti attori di una recita asfissiante e, a lungo andare, dannosa. Non più un dialogo civile ma un marasma confusionario e leaderistico, un’annessione indiscriminata, un’adesione corale a quello che non sembra essere più un progetto di governo ma un progetto per il governo, in cui le istituzioni non sono il mezzo ma il fine e Palazzo Chigi è il centro del potere in cui tutto si decide e tutto si impone, con il Parlamento trasformato in un inutile orpello e i vari dicasteri ridotti a una funzione puramente ornamentale.

Qui sta, a nostro giudizio, il cuore della nuova intuizione lettiana: nell’autocritica, nella saggia e lungimirante capacità dell’ex presidente del Consiglio di rimettersi in gioco e di analizzare ciò che di buono e di meno buono ha fatto nella sua ormai ventennale carriera politica. E fin dalle prime pagine si ha l’impressione di leggere un Letta diverso: non finalmente di sinistra, come sostiene qualche critico malevolo, ma senz’altro più maturo, finalmente cosciente del fatto che non basta andare oltre le ideologie novecentesche perché una politica post-ideologica semplicemente non ha senso né una ragione di esistere e finisce inevitabilmente con lo sfociare nella melassa indistinta del partito omnibus che tutto tiene, tutto accoglie e nulla di nuovo propone, se non la riproposizione di ricette stantie ormai fallite e accantonate in ogni angolo del globo. Occorre un’ideologia europea, e qui Letta è uno dei massimi esperti, essendo da sempre un europeista convinto, cresciuto alla scuola del miglior popolarismo: quello che fin dagli anni Cinquanta guardava all’Europa unita non solo come a un traguardo da raggiungere ma anche come a una straordinaria occasione da non sprecare per affrontare e risolvere alcuni atavici vizi del sistema-Italia.

Un Letta internazionalista, ancor più che in passato, che analizza con una gustosa aneddotica e dovizia di particolari il contesto mondiale e riflette sulle possibilità dell’Italia di inserirvisi, puntando sui suoi cavalli di battaglia: dal cibo al turismo, dall’innovazione e a un assetto industriale che deve profondamente rinnovarsi e ripensarsi per cogliere la sfida della globalizzazione senza puntare sulla svalutazione dei diritti dei lavoratori.

Un’Italia come un grande cantiere aperto in un mondo che è esso stesso una fucina di idee e di proposte: questa è l’immagine che si ricava dall’opera di Letta, abile nel descrivere una transizione mondiale al termine della quale nulla sarà più come prima ma nulla è detto che debba essere, per forza di cose, peggiore. Dipende da noi, e questa è la grande sfida che si pone di fronte alla politica: riprendere in mano le redini del progresso, guidarlo, accompagnarlo e renderlo inclusivo perché un’altra delle preoccupazioni che traspare con evidenza dalle centotrenta pagine del volume riguarda il futuro delle nuove generazioni, il loro sentirsi escluse e messe ai margini, il loro desiderio di sfogo e il loro istintivo rivolgersi a proposte politiche che non conducono da nessuna parte, in quanto intrise di populismo e prive di una visione globale, ma comunque da accogliere, da ascoltare in Parlamento, da far scorrere nel solco della Costituzione onde evitare che riemergano come un fiume carsico fino a sfociare nel Paese sotto forma di una ferocia indistinta e indiscriminata.

Infine, e queste sono le pagine più emozionanti, il lungo racconto dell’operazione Mare Nostrum e della tragedia di Lampedusa, condite da un invito all’Europa a farla propria e finanziarla in prima persona e da una netta critica all’attuale governo per aver ceduto al populismo arrembante di Salvini, accantonando un’operazione che aveva contribuito a salvare le vite di un’infinità di disperati in fuga dalla miseria africana e dal disastro delle fallite primavere arabe.

È un “homo relatus”, quello che emerge dall’analisi lettiana della società: un uomo nuovamente protagonista dopo il trentennio del becero individualismo thatcheriano, dell’avidità elevata a valore dal personaggio di Michael Douglas in “Wall Street” e dell’egoismo trasformato in virtù quando, al contrario, è l’emblema del nostro degrado complessivo. Un uomo che cerca di ritrovarsi e di riappropriarsi di se stesso, di esprimersi e di farsi ascoltare, di conoscere e di scoprire, di insegnare e di imparare, di capire e di innovare, ponendo al centro del dibattito politico la necessità di cambiare anche la forma partito, favorendo le reti orizzontali, i rapporti costanti fra la base e il vertice e riscoprendo un’intuizione antica e modernissima di Dossetti, ossia la politica come maieutica sociale, come arte nobile che nasce nel cuore della società ed entra nelle istituzioni per corrispondere a sogni e speranze, esigenze, ambizioni e prospettive dei suoi milioni di componenti. Da qui, la risposta positiva alla domanda sul rapporto fra democrazia e modernità posta dall’interlocutore di Pechino, il quale si interroga sulla capacità del nostro Paese di inserirsi in questo mondo sempre più veloce e, in alcuni casi, apparentemente impazzito, e una risposta esaustiva anche all’appello di Fabrizio Barca che già due anni fa aveva scritto riflessioni di grande interesse sui futuri orizzonti della sinistra e su come essa debba rinnovarsi per rispondere concretamente alle istanze di giustizia, solidarietà e uguaglianza per cui è nata.

E qui Letta compie, senza annunciarla, la sua vera, grande rottamazione: si libera degli anni Ottanta e li ripone nel cassetto, compiendo una distinzione fra la dolcezza dei ricordi giovanili e l’amarissimo bilancio politico di un decennio che è stato l’inizio e la causa del nostro declino, a cominciare proprio dal sogno di un’Europa unita e capace di trasformarsi in una comunità accogliente e rispettosa delle esigenze di tutti.

Da questo libro, si può dire che è cominciata la lunga rincorsa di Letta, fondata su un aperto contrasto al modello politico incarnato dalla serie americana “House of Cards”, sulla riaffermazione di un’ideologia europea e su una visione aperta del nostro stare insieme. Dove lo condurrà e quanto influirà su di essa l’esperienza a Sciences Po, per ora non è dato saperlo.

Di una cosa, invece, siamo assolutamente certi: quest’anno in cui il renzismo ha mostrato il suo vero volto gli ha fatto bene, anche se, per la stima e il rispetto che nutriamo nei suoi confronti, non glielo diremo mai.


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