Di Elena Paparelli
Da più parti però si è sottolineato come la discussione non sia uscita dalle maglie strette di una riflessione politico/amministrativa senza ricadute decisive nella realtà, e senza comunque diventare argomento centrale dei cittadini nei confronti dei luoghi che abitano quotidianamente.
Ancora oggi si continua a ragionare solo in termini di “messa in sicurezza” degli spazi urbani, mentre poter passeggiare tranquillamente in una metropoli, per una donna degli anni Duemila, è tutt’altro che scontato.
Non è un caso che abbia fatto molto parlare, tempo fa, soprattutto sui social, il video “Cento molestie in dieci ore – La passeggiata di una ragazza a New York” (video pubblicato in basso), un esperimento sociale, replicato poi al Cairo come a Roma, per verificare sul campo la difficoltà, per una donna, di muoversi con disinvoltura nello spazio pubblico senza dover ricevere – quasi ad ogni angolo dell’urbe – ammiccamenti e provocazioni varie.
La domanda che si è portati a fare è quanto oggi una “geografia di genere” abbia una sua ragion d’essere.
Se lo spazio urbano si “modella” in relazione al genere dominante, c’è una vasta letteratura che indaga sul punto , tra cui anche l’interessante testo dell’italiana Gisella Bassanini “Per amore della città” (Franco Angeli, 2008)
E non si dimenticano neppure i lavori di diverse fotoreporter che cercano di raccontare il rapporto fra il corpo della donna e la città, come per esempio ha fatto la fotografa Loredana Celano nella sua mostra “Urban Female“.
L’ultimo contributo serio – in ordine di tempo – per riflettere sul rapporto fra donne e spazio urbano arriva da Action Aid, con il dossier “La città proibita.Le donne e lo spazio urbano“, risultato di una ricerca che ha interessato progetti, oltre che in Italia, anche in Etiopia, Kenya, Nepal, Cambogia, Brasile.
Il punto è che i fenomeni migratori verso le città – inevitabilmente in aumento nei Paesi del Sud del mondo – renderanno sempre più complesse le condizioni delle donne in città.
Cifre alla mano, si stima per esempio che la concentrazione della popolazione nelle aree urbane in Etiopia passerà dall’attuale 17% al 37,5% entro il 2050.
Il dossier raduna le testimonianze di alcune donne del Sud del mondo, tra cui quella in Cambogia di Bopha, 24 anni, che fa l’operaia in una fabbrica di indumenti di Phnom Pehn e lavora anche 19 ore al giorno. Per lei gli spostamenti nelle ore libere sono una necessità: il suo bimbo di 8 anni abita con i nonni in un villaggio rurale.
Oppure quella di Furaha, appena 10 anni, che vive in Kenya, esattamente a Bamburi, vicino all’enorme discarica di Mwakirunge.
“Non ha la possibilità di andare a scuola – si legge nel dossier – e passa molte ore della sua giornata a cercare bottiglie di plastica fra i rifiuti. Le violenze in questi luoghi sono all’ordine del giorno”.
L’iniziativa internazionale Safe cities di Action Aid illustrata a fine dossier punta a combattere la violenza sulle donne negli spazi pubblici.
Si tratta di programmi che vedono coinvolti diversi Paesi del Sud del Mondo – fra cui Kenya, Nepal, Brasile, Cambogia, Liberia – attraverso iniziative realizzate in scuole, università ed enti pubblici per sensibilizzare sul tema comunità e governi.
Un’operazione culturale di lungo periodo contro la discriminazione che parte certamente da lì.
Si, ma nel frattempo che si può fare?
L’invito a tutti è di occuparsi dell’infanzia ferita, quella più soggetta a non riuscire mai a uscire dall’emarginazione, adottando da subito – tramite Action Aid – una bambina a distanza.