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L’affaire impresentabili. Tra innovazione e strumentalizzazione

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L’ultima settimana in vista delle elezioni amministrative e regionali di fine maggio 2015 è stata caratterizzata dall’acuirsi di un dibattito tanto più distante dalle questioni programmatiche e politico-amministrative quanto più vicino a quelle di opportunità politica e squisitamente elettorali.
Tali aspetti, politici e elettorali, hanno condotto alla introduzione di una nuova  fattispecie relativa ai titoli di ammissione dei candidati alle cariche elettive e governative di indirizzo politico: l’impresentabilità.

Come giustamente sostenuto dalla Presidente della Commissione Antimafia quella dei 17 nomi annunciati non si tratta di una lista di incandidabili nè di ineleggibili.  I cosiddetti “impresentabili” sarebbero individuati tecnicamente attraverso i criteri presenti nel codice di autoregolamentazione – peraltro non vincolante – approvato dalla commissione di inchiesta lo scorso settembre nella relazione DOC XXIII n. 3, ma la vera forza mediatica, nonché politica e elettorale di questa fattispecie sta proprio nel non avere, come sollevano i critici della Bindi, alcun preciso riferimento normativo a legislazione vigente. La inconsistenza materiale e normativa della impresentabilità, ovvero la sua fluidità, la rende altamente digeribile all’opinione pubblica, povermente controargomentabile e sostanzialmente esplosiva.
Non solo, l’impresentabilità appare anche “tecnicamente” indefinibile poichè si attesta tra una verifica ex ante, come accade per l’incanidabilità ma non ha alcun effetto nè prima nè dopo le elezioni, almeno non in termini di invalidazione della elezione. Più concretamente ne intacca la robustezza, senza delegittimarne la forma e la procedura, permettendo quindi ai 17 della lista di poter sedere eventualmente nelle assemblee, nei consigli o nei governi ma depauperati di quella forza comunemente ricevuta dalla scelta popolare, ovvero dalla elezione democratica.

Si è trattato di fare leva sulla opportunità politica di certe candidature, oltre che sul sentiment popolare, prima ancora che populista, superando in termini di merito e mediatici i concetti di ineleggibilità è di incandidabilità.
Ci sono alcune considerazioni che trascendono dalla mera polemica:
1) la Commissione Antimafia, al contrario di quanto sostengono alcuni esponenti politici, non avrebbe tra i suoi compiti quello di esprimersi sulla “qualità” delle liste  (anche se ciò è previsto nella citata relazione) ma al tempo stesso il suo è un mandato che poggia sui principi di indagine e di controllo del rispetto della legislazione vigente  in ambito antimafia ma anche del rispetto di regole e processi non necessariamente formalizzati in termini di legge. Proprio in questo senso la commissione Antimafia ha il compito di individuare eventuali ambiti e tematiche da sottoporre all’attenzione delle istituzioni affinché provvedano. Siamo quindi più nella sfera della moral suasion che in quella dell’attività legislativa e quindi, come ha interpretato Bindi, siamo in una terra di nessuno particolarmente sensibile al trend del momento che offre innumerevoli spunti di azione e reazione, ivi compreso quello di introdurre ex novo una fattispecie per i titoli di ammissione dei candidati alle elezioni con finalità ancitorruttive e antimafiose;
2) sostanzialmente la domanda che ci si deve porre non è tanto se siamo d’accordo o meno, chè in occasioni come queste la risposta non sarebbe mai davvero sincera e mai davvero scevra da valutazioni eccessivamente personali e politiche, quanto se l’introduzione della impresentabilità condurrà il plenum parlamentare o i governi a apportare le dovute modifiche alle normative vigenti. D’altronde, anche se da opposte barricate, l’idea che la legge Severino debba essere riformata per renderla più idonea alla sua stessa applicazione e al tempo stesso più adeguata alla complessa realtà amministrativa, prima ancora che a quella politica, si è fatta spazio negli ultimi mesi in maniera sempre più pressante. Al pari, proprio in queste settimane è tornato all’esame della commissione affari costituzionali di Montecitorio il conflitto di interessi che, secondo alcune proposte, dovrebbe intersecare la riforma delle norme sulla ineleggibilità e incompatibilità parlamentari oltre che governative e amministrative. L’evoluzione delle tre fattispecie relative ai titoli di ammissione alle elezioni e quindi alle cariche (incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità) si trova quindi ad un pericoloso, per alcuni, potenzialmente liberatorio, per altri, incrocio sul quale la Commissione Antimafia ha issato un ingombrante semaforo che sembra avere solo luci verdi;
3) a nessuno, per onestà intellettuale, deve sfuggire che l’affondo guidato dalla presidente della commissione di inchiesta si impone su una battaglia tutta interna al Partito Democratico. Battaglia che può vedere ciascuno parteggiare per l’una o per le altri parti ma che, come ogni scontro, rischia di lasciare a terra una serie di caduti e un   senso di spaesamento generale: in primo luogo perché un tema così delicato e di fatto importante come quello della composizione delle liste elettorali arriva a essere considerato, a livello mediatico e politico, sulla scia di beghe interne di partito o di fazione politica e delle sommarie polemiche conseguenti. In secondo luogo perché, di converso, l’avversione per lo stesso tema e il rischio che esso venga minimizzato e quindi espunto dalla lista delle cose da fare si fondano esclusivamente sull’acredine tra opposte fazioni invece che sul merito della questione.
In conclusione, quindi, che sia giusto in termini oggettivi ridurre ulteriormente lo spazio alla infilitrazione della criminalità organizzata nelle liste elettorali appare fuor di dubbio. Che ciò possa tradursi in una azione oculata e politicamente neutra, appare al momento impensabile. Che, infine, l’affaire impresentabili conduca effettivamente ad una normativa esaustiva,  coerente e uniforme sulla “qualità” dei candidati alle tornate elettorali sembra altrettanto complicato e forse persino più lontano di quanto fosse prima che scoppiasse il caso De Luca & co.


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