In questi ultimi anni la discussione si è spostata dalla necessaria riforma della legge Gasparri e delle norme sul conflitto di interessi alla Rai. Molti non credono più alla necessità che permanga un’istituzione deputata alla realizzare una particolare missione nel settore. A questo stato di cose ha contribuito il generale sfavore verso il “pubblico” e soprattutto la feroce lottizzazione politica e la stessa gestione industriale dell’azienda. Certi conti o certi programmi hanno così dato fiato ai suoi detrattori. Altri invece più in mala fede sono stati spinti dal desiderio di favorire ancora di più i principali concorrenti televisivi terrestri e satellitari. Il punto però non è “rottamare”, ma quello di rendere la Rai più moderna e liberata dal giogo politico che l’ha rovinata.
Esiste in Europa e più acutamente in Italia un tema generale di legittimazione del servizio pubblico presso i cittadini, i quali in maggioranza lo ritengono ormai uno spreco. Tuttavia, bisognerebbe andare cauti se é vero come è vero che l’Europa ha fatto di queste istituzioni culturali un caposaldo dei diritti di cittadinanza (principio affermato nei trattati e ribadito di recente anche dalla raccomandazione del Consiglio d’Europa sulla governance dei sevizi pubblici audiovisivi). Dunque una nuova legittimazione collegata ad un cambio di governance e di missione anche in rapporto con lo sviluppo delle diverse piattaforme tecnologiche, in particolare di quelle fondate sull’utilizzo di internet. Il mondo convergente rende paradossalmente ancor più necessaria l’esistenza di un servizio pubblico nella lotta alla povertà digitale. La sua sopravvivenza, collegata al diritto di uguaglianza nell’accesso alla comunicazione, dovrebbe giustificarsi in primo luogo sulla sua funzione di contrasto a nuove forme di marginalità conseguenti all’impossibilità tecnica ed economica di molti ad accedere alle informazioni e ai prodotti culturali.
Avere in astratto tante possibilità di informazione e di contenuti non significa che venga meno l’interesse, anche costituzionale, a che vi sia un soggetto indipendente che assicuri determinate garanzie. Ad esempio, più che mai su internet si pone il problema dell’accesso e dell’affidabilità delle notizie, laddove quelle giornalistiche sono sempre più coperte dalle regole del copyright o peggio distorte dagli interessi politici o economici. Questo può essere in parte risolto dalla scelta di chi opera in rete o dalla reputazione di chi immette quel determinato contenuto. Ma resta pur sempre una grande incertezza. Come colmarla? Il servizio pubblico dovrebbe avere l’obbligo per statuto di produrre informazione garantita anche sulla rete, quanto a verifica delle fonti, qualità, indipendenza e gratuità. Oggi poi deve aggiungersi, in una società sempre più organizzata intorno alla connessione alla rete, la garanzia di livelli minimi di servizio uguali per tutti. Ci potrebbero essere infatti tanti soggetti che svolgono un ruolo proficuo sul piano del pluralismo informativo o dell’offerta di contenuti, ma non saremo mai sicuri che tale condizione, in assenza di un servizio pubblico nazionale (dotato di una propria infrastruttura trasmissiva), sia presente in tutte le complesse articolazioni territoriali e sociali del nostro paese.
Problema che risulta con evidenza nell’accesso ai contenuti. Viviamo sempre più processi comunicativi nei quali i prodotti di pregio sono a pagamento. Ora le tecnologie già presentano un problema di inclusività sociale, o perché sono tecnicamente costose o perché sono difficili da usare oppure perché materialmente non raggiungono tutti i cittadini. Se a questo problema si aggiunge il costo dei contenuti si rischia in futuro di avere una parte della società che gode di una partecipazione informata e di prodotti di qualità e un’altra che deve accontentarsi di un’offerta più scadente, caratterizzata da un forte peso della pubblicità e della pratica di un sbrigativo trattamento dei dati personali. La necessaria apertura tecnologica porta poi come conseguenza anche un effetto sulla governance del servizio pubblico, che, come accade nella gestione della rete, deve aprirsi alla società civile, con una diretta presenza di soggetti espressivi di diversi corpi sociali. Esiste infatti una diffusa convinzione che si stia realizzando nel mondo della comunicazione un profondo cambiamento. C’é chi ingenuamente pensa che si stiano realizzando vertiginose conquiste piene di tecno-utopie, di aumenti di connettività, di democrazia diretta, di prosperità digitale. In realtà questo cambiamento è molto più complesso e contraddittorio. Alle tradizionali storture del sistema televisivo oggi si aggiungono gli interessi delle grandi corporazioni della rete.
Un soggetto pubblico, ampiamente rappresentativo della società, obbligato al pluralismo e all’accesso universale su tutte le possibili forme tecnologiche della comunicazione, costituisce perciò un punto non rinunciabile nello sviluppo di un moderno sistema democratico. Come dice Des Freedman nel suo saggio “The Contradictions of Media Power” il capitalismo anima un costante impulso di innovare e creare in una sorta di rivoluzione permanente che trova nella tecnologia un potente strumento di destabilizzazione dell’esistente. Ma allo stesso tempo è indotto da un istinto altrettanto potente alla concentrazione e alla sua legittimazione. Cosicché i media, compreso Internet, si trovano proprio al centro di questa contraddizione: da una parte essi producono “senso comune” al servizio della legittimazione delle elites e dello status quo, ma dall’altra, trascinate dalla costante irrequietezza del capitalismo, ne assecondano attraverso il “buon senso” l’alterazione dell’equilibrio. Non è quindi vero che la tecnologia digitale abbia disarticolato le gerarchia di potere e la sua concentrazione. I media restano fortemente oligopolistici, intrecciati con le elites che detengono l’autorità finanziaria o politica e il loro ruolo di intermediazione è ancora potentissimo. Aprire il servizio pubblico alla rete, ai suoi strumenti di interazione, significa anche socializzare il potere comunicativo e contrastare così le nuove è più pericolose forme di egemonia.
Fonte: “Il Manifesto”