Primo rapporto sul lavoro di cura in Lombardia a cura dell’Irs. Il 40% di chi assiste i propri familiari si sente abbandonato. Rapporto con i servizi pubblici molto distaccato: il 7% non ne sente nemmeno l’esigenza. Unica richiesta avere un sostegno economico
MILANO – Un caregiver lombardo su tre non sa di cosa ha bisogno per affrontare la solitudine e le difficoltà del lavoro di cura. Poca informazione, poca attenzione al servizio offerto dal pubblico e un diffuso senso di indispensabilità che rende difficile tenere le giuste distanze. Per questo è sempre più di moda il “welfare fai-da-te”, informale e privato. Per il servizio pubblico la grande sfida è riconquistarsi spazio, autonomia e autorevolezza, ma in modo da essere percepito come utile da chi, in famiglia, presta assistenza ai propri familiari.
Ecco la fotografia scattata dal Primo rapporto sul lavoro dei caregiver in Lombardia, curato da Elena Brenna, Carla Dessi, Daniela Mesini, Giselda Rusmini, Marcella Sala e Sergio Pasquinelli dell’Istituto di ricerca sociale. Per realizzare lo studio i ricercatori hanno intervistato 512 caregiver. Un’analisi preziosa che assume ancora più rilevanza se la si mette in relazione al contesto: ogni anno ci sono 40-45 mila nuovi ultra 65 enni. Nel 2030 toccheranno quota 3 milioni e di questi un milione avranno più di 80 anni. Ad oggi le demenze colpiscono 170 mila anziani. Dato l’andamento demografico della popolazione, il rischio è che il welfare familiare, pilastro fondamentale di tutto il sistema di cura dell’Europa meridionale, venga ridotto sensibilmente.
L’età media degli assistiti dai caregiver intervistati è di 82 anni e nove su dieci sono invalidi al 100%. Il 40% ha Alzheimer o demenza, mentre uno su dieci il Parkinson. A questo si aggiunge che sei su dieci hanno una forma di disabilità. Insomma, il quadro è difficile e l’impegno richiesto è molto importante. L’identikit dei caregiver vede in maggioranza donne impiegate in questo lavoro (il 73%) con un’età media di 59 anni. L’impegno della cura dei familiari in media dura più di due anni, tempo che alla fine incide sulla tenuta, anche psicologica di chi assiste. Il 40% si sente infatti abbandonato.
Otto caregiver su dieci tra quelli intervistati sono familiari (il 60,5per cento figli e il 26 per cento coniugi), il restante 20 per cento è composto da badanti. Il lavoro richiede un grande impegno di ore: l’85% di chi ha risposto dedica più di 20 ore a settimana e il 43% 24 ore al giorno. Per due terzi, poi, l’impegno dura da almeno due anni. Se i figli mantengono intatta la vita lavorativa (solo uno su cinque deve ridurre gli orari) e semmai ci rimettono in termini di tempo speso con il resto della famiglia, per i coniugi non c’è mai possibilità di distacco.
Il tema dei bisogni è quello più difficile da esplorare. L’unica richiesta che si sente con un minimo di insistenza è quella di avere un sostegno economico che riconosca il lavoro del caregiver ma che possa essere speso senza vincoli: una richiesta condivisa dal 30% degli intervistati. Nella classifica delle esigenze al secondo posto c’è il supporto di un volontario (17%) mentre molto più indietro si pone l’esigenza di una badante (6,4%) o di un ricovero in strutture (2,3%). Anche in termini di servizi aggiuntivi c’è pochissima consapevolezza: due su tre non si danno una risposta e solo uno su dieci chiederebbe un sostegno psicologico per evitare il burn-out.
Il rapporto con i servizi pubblici è molto distaccato: il 7% non ne sente nemmeno il bisogno. L’indagine Share del 2007 aveva già individuato questa peculiarità lombarda: è ancora più basso rispetto alla media dell’Europa meridionale il tasso di cittadini che si affiderebbe allo Stato per la cura dei propri cari. Al contrario, si equivalgono le percentuali di chi affiderebbe il familiare solo alla famiglia o a un mix di servizio pubblico e familiare. (lb)