Amin ha dodici anni e viene dal Marocco.
Ahmet invece ne ha solo dieci. Anche lui viene dal Marocco e a Melilla ci è arrivato da solo, come tutti gli altri.
Ahmet e Amin. Sono i più piccoli dei bambini perduti di Melilla. Ne incontriamo una decina tra i vicoli della città vecchia. Ma sono almeno sessanta in tutto nell’angolo d’europa ritagliato nella enclave spagnola in marocco. E sono qui da sempre, per quelli che riescono a partire altrettanti ne arrivano. Tutti lo sanno, nessuno interviene. Solo un’associazione se ne prende cura si chiama Prodein.
Sono ragazzini perduti, come quello nascosto nel trolley, trovato dalla polizia di frontiera al varco di Ceuta a pochi chilometri di distanza. Le frontiere d’Europa sono piene di ragazzini che cercano un varco, che viaggiano da soli, che non hanno nessno che li stia aspettando.
Anche i ragazzini di Melilla aspettano l’occasione di andare in Spagna. In europa. Ahmet vuole andare a Barcellona, aspetta la sua nave da otto mesi. Amin ha vissuto due dei suoi dodici anni scappando alla polizia nei vicoli di Melilla. Gli altri sono qui da tempo, alcuni da mesi, altri da anni.
“No mama, no papà” dice un ragazzo mentre segue con la coda dell’occhio i movimenti di due agenti di polizia che si stanno allontanando. Vengono dalle zone più povere del Marocco, luoghi dove non c’è alcun futuro per loro. E le famiglie lo sanno, a volte li spingono ad andare, a volte cercano di trattenerli senza successo.
Mohammed parla con sua madre al telefono. Ormai sono due anni che cerca di imbarcarsi su un traghetto per la spagna e lei ogni volta che riesce a parlargli gli ripete la stessa cosa: torna a casa.
Mentre l’alba illumina il faro li troviamo già svegli sulla scogliera. I ragazzini perduti di melilla vivono qui, nascosti tra le rocce. Il letto di Amin è un cumulo di stracci umidi sistemati in una grotta lungo la scogliera.
Si arrampicano sulla roccia come ragni. Si aiutano con una corda. Finora non è mai successo che qualcuno si sia fatto male, e sembra quasi impossibile. “Noi siamo leggeri, siamo piccoli – racconta Ahmed -. La roccia si muove ma ci tiene, ma se prova ad andare un adulto sono sicuro che si stacca.”
Muhtar guarda il traghetto e racconta la sua storia. Ha saltato tante volte il muro per provare ad imbarcarsi di nascosto. Ogni volta la polizia l’ha preso e l’ha buttato fuori. Ha tredici anni e uno zio che vive a Genova e che lo sta aspettando.
Poi arrivano i suoi amici. Ci mostrano i segni del pestaggio subito nella notte. La Guardia Civil dicono.
Amin è ridotto peggio, nonostante i suoi dodici anni. Racconta che lo hanno sollevato di peso e lo hanno sbattuto a terra. Ci mima la scena, la polizia? gli chiedo. “No, educator – scandisce -“. Gli educatori del centro di accoglienza per minori non hanno pazienza, alzano le mani con grande facilità, esattamente come la Guardia Civil. I ragazzini di Melilla lo raccontano con lo sguardo rassegnato. L’occhio di Mohammed è livido di sangue e forse di una rabbia che però non mostra. Sono rassegnati i ragazzini perduti di Melilla, sanno di essere gli ultimi di una società che li considera un fastidio.
Un traghetto entra in porto. Loro si avviano, scavalcano la recinzione e corrono più veloci che possono. Il giorno è appena iniziato. Per i bambini perduti di Melilla ricomincia tutto da capo.