“Heysel”, trent’anni dopo, e vien voglia di ricordare quella coppa maledetta, quelle inutili bandiere al vento, quelle maglie bianconere che correvano su un campo trasformato in trincea, quel discutibile rigore di Platini, quella sua assurda esultanza e quella voglia collettiva di essere via, lontano, altrove.
“Heysel”, Belgio: uno stadio, una finale e la memoria ormai smarrita di una strage nella quale persero la vita trentanove persone ma si giocò lo stesso perché già allora, per i parametri di chi misura lo sport unicamente in base agli interessi economici che agita, lo spettacolo doveva andare comunque avanti, ad ogni costo, benché sarebbe stato opportuno fermarsi e chiuderla lì, non assegnarla proprio quella coppa insanguinata e inutile.
“Heysel”: si disse che si doveva giocare lo stesso per ragioni di ordine pubblico, che non era nemmeno il caso di rinviare la partita, che le conseguenze, in caso di annullamento, sarebbero state assai peggiori e forse avevano ragione loro, gli organizzatori, i potenti, gli uomini che da tempo immemore muovono la macchina del calcio; ma a noi sportivi non interessa, come non ci interessano gli albi d’oro e il computo ragionieristico dei titoli. Ci interesserebbe l’epica dello sport, la sua bellezza, se ancora esistessero, se ancora avessero nazionalità o spazio in questo mondo, come se la barbarie dell'”Heysel” non fosse avvenuta negli anni ruggenti del thatcherismo e dell’edonismo reaganiano, in base ai quali la società non esiste: esistono solo gli individui, in perenne guerra tra loro per arrivare primi, per vincere ad ogni costo, per esultare trionfanti davanti a trentanove cadaveri, anch’essi buoni per le statistiche e gli elenchi, come se si trattasse di cifre e non di vite umane.
“Heysel”, e per la prima volta potemmo toccare con mano il nuovo immaginario collettivo, la nuova concezione rampante di quest’uomo non più uomo, di questo calciatore-robot, di questi tifosi-hooligans, di queste competizioni-arene, sfogatoi di ogni odio e di ogni ferocia, teatri ideali per regolare contese che un tempo si sarebbero consumate nell’atto di una guerra.
“Heysel”, l’inutile strage dello sport e della sua poesia, l’inutile strage di chi sognava di assistere a uno spettacolo e si ritrovò a combattere una guerra per la quale non era attrezzato, a morire schiacciato, soffocato, calpestato, andandosene nella maniera più assurda e inaccettabile, come un soldato dei tempi moderni, condannato a vivere con l’elmetto e a morire senza un perché, senza una ragione, dopo aver combattuto strenuamente contro nemici apparentemente invisibili ma in realtà demoniaci, lungo la frontiera dell’insensatezza e della malvagità senza confini.
“Heysel”, la metafora del calcio e di ciò che siamo diventati, trasformando la follia di una notte in consuetudine e cominciando ad affondare negli scandali (ultimo, in ordine cronologico, quello che ha travolto la FIFA e il suo ineffabile dominus Blatter), nel rancore reciproco, nell’odio, nella sfiducia, nell’intolleranza.
“Heysel”, e trent’anni dopo siamo ancora lì, sempre più fragili, intrappolati in quello stadio ricoperto di lacrime che ormai non è solo un emblema di morte e sofferenza ma un punto di riferimento di questa travolgente e insopportabile modernità, come se avessimo interiorizzato quel calcestruzzo e fossimo divenuti noi stessi le mere cifre di una statistica senz’anima.
“Heysel”, e tornano in mente le parole di Michel Platini (attualmente presidente della UEFA): “Quando cade l’acrobata, entrano i clown”. E oggi i clown sono davvero troppi e, oltre a non far ridere, destano solo rabbia.