Il Giappone non è mai stato un paese particolarmente liberale. Indipendentemente dall’orientamento politico, i rappresentanti al governo hanno sempre esercitato un ramificato livello di controllo sulla stampa e i mezzi di comunicazione. A partire dal 2012, tuttavia, questa tendenza è andata inasprendosi con l’elezione di Shinzo Abe, primo ministro, nonché leader della corrente più conservatrice del Partito Liberal Democratico (LDP).
Il denominatore comune di tanta intolleranza può essere ravvisato nell’assoluta incapacità di accettare le critiche. Tale ossessione si traduce in un clima del sospetto che costringe molte testate e programmi televisivi ad adattare i propri contenuti alle richieste del governo Abe. I giornalisti, consapevoli delle potenziali ripercussioni, si vedono sovente costretti ad espressioni di ponderata auto-censura. Questo “silenzio indotto” non interessa la sola stampa nazionale, ma si estende anche ai temi e alle modalità di comunicazione dei corrispondenti esteri. Nella fattispecie, tra le varie testimonianze raccolte all’interno dell’ultimo numero di Internazionale (15-21 maggio 2015), un articolo di Cartsen Germis, corrispondente dal Giappone per il Frankfurt Allgemeine Zeitung, ripercorre le tappe del quinquennio 2010-2015 che hanno portato al graduale deterioramento della libera professione giornalistica. Germis sottolinea i metodi aggressivi del governo Abe, criticandone l’assoluta impossibilità di dialogo e la mancata disponibilità di aprire tavoli discussione sulle tematiche d’attualità (prassi consolidata durante le amministrazioni di Hatoyama, Kan e Noda).
Le manovre di Abe nascono dal dichiarato tentativo di voler veicolare un’immagine positiva del Giappone della Seconda Guerra Mondiale, ma la strada intrapresa sta causando non poche forme di protesta. Ad Aprile, il noto commentatore televisivo Shigeaki Koga ha ricondotto il proprio allontanamento a “pesanti attacchi subiti dalla segreteria del primo ministro” (Martin Facker, The New York Times -tramite Internazionale). Lo sfogo ha suscitato un grandissimo eco mediatico, non solo per i milioni di telespettatori, ma anche perché Koga aveva ricoperto in passato alte cariche come funzionario statale.
La protesta di Koga ha fornito inoltre uno spunto di riflessione sulle tendenze coercitive del governo in auge. La destra di Shinzo Abe sta lavorando per ricostruire l’immagine del Giappone all’estero, ma, se dovesse proseguire su questa strada, riuscirebbe nel duplice fallimento di compromettersi ulteriormente agli occhi del mondo e dei propri cittadini.