Il film di Paolo Sorrentino, “La giovinezza” (Youth) vince il concorso del 68° Festival di Cannes e rilancia l’Italia nel panorama del cinema internazionale. Non è importante attendere la proclamazione: anche se questo non fosse il verdetto della giuria per il Palmares, il risultato non cambierebbe.
Dopo “La Dolce Vita” metabolizzata ne “La grande bellezza” dello scorso, anche “Otto e Mezzo” di Fellini, il “film dei film”, rinasce nella nuova opera del regista napoletano, unico autore degno del nome oggi esistente nel nostro Paese. Doveva avvenire, era nell’aria. Fellini è stato il più grande artista cinematografico del secolo scorso, originale ed unico, e per questo inimitabile; qualsiasi tentativo di riproporne l’universo e lo stile è sempre caduto nel ridicolo, nello stucchevole, nella parodia. Era necessario che i suoi contenuti visionari si trasformassero in sostanza nutritiva, in cibo degli dei assimilato da qualche altro organismo.
Ci sono voluti cinquanta anni perché il deposito prezioso tornasse a dare frutti in un’altra mente, in un altro talento, che non ha con lui debiti di nessun genere ma a cui deve tutto. Oggi non c’è autore cinematografico che non nomini Fellini come proprio nume tutelare, che non ne riconosca il magistero, la lezione insostituibile entrata a far parte dei nostri cromosomi; la figura di un padre che in tanti rimpiangono perché era una certezza di libertà creativa, e aveva profeticamente anticipato quasi tutto ciò che sarebbe accaduto dopo la sua scomparsa. Nel panorama nel nostro cinema disastrato, mantenuto in vita soltanto dalle flebo dei proventi governativi distribuiti a centinaia di opere indecenti giudicate “di interesse culturale nazionale”, per almeno due generazioni abbiamo assistito al vuoto di idee accompagnato dal crollo irrecuperabile del pubblico nelle sale.
Ma questa vittoria di Sorrentino a Cannes, qualsiasi sia oggi il festeggiato sulla Croisette, apre finalmente una prospettiva diversa, spazza via le ambiguità che ci hanno avvelenato e rimette in campo i valori cinematografici. Viene voglia di esclamare: bentornato cinema! Bentornato Fellini! Erano anni che non si ammirava sullo schermo il film di un vero autore, nato in casa nostra, capace di raccontare una storia con un linguaggio personalissimo che non fa il verso a nessuno ma semplicemente ingloba ciò che lo ha preceduto escludendo ogni manierismo, scartando citazioni e ammiccamenti, a vantaggio di uno sguardo nuovo, intriso di futuro. Ancor più di quanto “La grande bellezza” riecheggiasse La Dolce Vita, “Youth – La giovinezza”, trasfigura “Otto e mezzo” aggiornando acrobaticamente il discorso sull’arte e sulla vita. Nel film di Fellini c’era un regista in crisi che si rifugiava in una stazione termale seguito dal caravanserraglio della produzione, ma anche dall’amante, dalla moglie, dal suo harem fantastico, dai ricordi familiari, dai fantasmi della sua esistenza, per approdare alla confessione disarmata e disarmante che l’unica nostra ricchezza è lo stare al mondo con onestà, rifiutando la mistificazione che spesso ci accompagna.
“La vita è una festa, viviamola insieme”. Qualcosa di simile accade a Sorrentino, il quale ha più o meno l’età di Federico al tempo di quell’opera geniale, e nel suo film sdoppia il protagonista in due, un anziano direttore d’orchestra in ostinato ritiro, e un regista suo amico e coetaneo in ansia di realizzare il film testamento. Le terme di Chianciano diventano un ‘resort’ esclusivo tra le Alpi svizzere frequentato da miliardari fuori uso, coccolati e vezzeggiati da uno scelto personale femminile addestrato nel procurare sollievo a corpi ormai disfatti. Il cardinale di “Otto e mezzo” è sostituito da un bonzo capace di ‘levitare’, sospeso a mezz’aria. E come succedeva al Grand Hotel delle Terme anche qui ci sono spettacoli di intrattenimento per gli ospiti. E belle donne. Anzi una creatura talmente bella da arrestare il fiato. Quando scivola in piscina, nuda, sotto gli occhi increduli e ammaliati dei due vecchi amici in salamoia, uno chiede all’altro: “Ma chi è!?” Ottenendo l’unica risposta possibile: “Dio”. La bellezza femminile essendo la dimostrazione in terra dell’essenza divina: il motore del desiderio e dunque della vita, e dunque dell’eternità. E’ assente in Sorrentino il carosello finale di tutti i personaggi sulla marcia immortale di Nino Rota, che è diventata l’inno stesso del cinema mondiale, nel quale Fellini ci attrae in una autentica vertigine, abolendo ogni confine tra realtà e finzione, per indicarci come la vera salvezza sia raggiungibile nel regno superiore dell’arte: “Questa confusione sono io, io come sono non come vorrei essere…”. Sorrentino non arriva a tanto, non ancora, troppo intimamente appartato, anche con se stesso, per proporsi al centro delle proprie storie; e forse anche poco incoraggiato da uno scenario storico ben lontano dalla spinta propulsiva degli anni Sessanta quando ancora l’uomo sembrava padrone del proprio destino. Ma il linguaggio che egli utilizza, l’occhio infallibile, la capacità di racconto senza racconto, il coinvolgimento dentro una sfera emotiva e intellettiva così diversa da ogni altra, parlano dello sguardo su un’epoca che si apre, di un cinema che sta finalmente recuperando la forza di altissima metafora – Youth è anche l’annuncio della resa per vecchiaia dell’Occidente – e nello stesso tempo di proposta di spettacolo in cui la mente e il cuore tornano a rimare in perfetta sintonia.
Qualcuno ha notato che il protagonista, Michael Caine, indossa lo stesso cappelluccio a cloche e gli occhiali a montatura spessa di Fellini; e alla fine decide di accettare l’invito della Regina d’Inghilterra a dirigere le sue “Canzoni semplici” per il compleanno del principe consorte. Dopo le macerie l’armonia: Prova d’Orchestra.