Specchietti (buonisti) per le allodole. L’analisi di Federico Faloppa
«I buonisti provocano più morti» (Italia Oggi, 12 maggio 2015). Di questi tempi, capita di leggere anche titoli così: a proposito di sbarchi, migrazioni e politiche migratorie.
L’articolo si riferisce alla situazione australiana dove, secondo un sedicente esperto, le politiche “buoniste” dei governi laburisti avrebbero causato in un solo anno la morte di 1500 persone e 23 mila “sbarchi”, mentre quelle conservatrici, più rigorose, neanche una vittima.
Ma articoli simili, con titoli simili, si possono leggere anche a proposito della situazione italiana. Qualcuno si ricorderà ancora – perché fece scalpore – quel «Tragedia dell’immigrazione. Trecento morti di buonismo» con cui Il Giornale aprì l’edizione del 4 ottobre 2013. Che non è poi molto diverso da «Settecento morti di buonismo. È la più grande tragedia dell’immigrazione» (Il Giornale, 20 aprile 2015), di recente fattura.
Non è questa la sede per intervenire a proposito delle politiche australiane. Né per tentare di raccontare, in poche parole, drammi così colossali: come la morte di centinaia di persone nel Mediterraneo. Ma è certamente questo il luogo per esprimere qualche perplessità sull’uso, tanto spregiudicato quanto fuorviante (sul piano dell’informazione), della coppia di termini buonismo/buonista. Una coppia ormai celeberrima, e molto ricorrente anche nelle ultime settimane di questa campagna elettorale: dove non raramente accuse di buonismo rivolte agli avversari piovono da destra (soprattutto) a sinistra.
Farà bene un po’ di storia, però, prima di tornare all’attualità e all’(ab)uso di queste parole.
Nato intorno al 1993 per identificare, non senza ironia, la strategia politica di Walter Veltroni, che fece dell’apertura – eccessiva e accondiscendente, secondo molti – nei confronti degli avversari politici la sua bandiera, buonismo si affermò intorno alla metà degli anni Novanta, come ricordano Maria Vittoria Dell’Anna e Pierpaolo Lala, autori di Mi consenta un girotondo. Lingua e lessico nella Seconda Repubblica (Galatina: Congedo Editore, 2004: 110, 138).
Fu poi rilanciato, tra gli altri, da Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere del 18 settembre 1995 se la prese con “buonismo” e “benaltrismo” della sinistra rea, a suo dire, di estrema vaghezza e incapacità di scelte nell’affrontare le questioni relative ai fenomeni migratori («Chi non vede gli immigrati. La solidarietà “buonista” del centrosinistra»). A Galli della Loggia rispose punto su punto Luigi Manconi – autore di un disegno di legge criticato dall’opinionista del Corriere – che rispedì al mittente le accuse mettendo in luce l’uso “ideologico” di certe espressioni giornalistiche, come appunto “buonismo” («Ritengo, infatti, che la solidarietà […] attenga la sfera delle opzioni private e delle scelte individuali; nella sfera pubblica vanno richiamati e vanno utilizzati altri criteri. Ovvero quelli propri della politica: beninteso, di una politica e di politiche sociali intelligenti e razionali e, soprattutto, efficaci. Non emotive e irrazionali, come quelle invocate, demagogicamente, dalla destra […] Per questo trovo bizzarro il linguaggio ideologico giornalistico di Galli – il “buonismo”? Ma cos’è ? Davvero non capisco […] – e il suo attribuirmi “una politica dell’ immigrazione basata sulla solidarietà»; Corriere della Sera, 20 settembre 1995).
Fu proprio tra il 1995 e il 1996 che prima si ampliò e quindi si specializzò il significato di buonismo e buonista, che da una valenza generica di “comportamento tollerante” passarono negli anni successivi a indicare soprattutto, con connotazioni non soltanto più ironiche ma spregiative, idee e atteggiamenti (di sinistra) ritenuti (da destra) vaghi e ipocriti in relazione ai fenomeni migratori.
Probabilmente fu questo ampliamento semantico a tenere in vita il neologismo, che malgrado le previsioni (Così Giulio Nascimbeni sul Corriere del 25 agosto 1996: «Pensate, tanto per fare un esempio, a buonismo, anch’esso promosso a dignità di vocabolario. Vi pare che abbia molto spazio in questo momento rissoso della politica? Che sia già il caso di mettergli a fianco quella piccola croce che, appunto sui vocabolari, indica le parole arcaiche o defunte?») travalicò il contesto politico per essere usato, genericamente, nei più diversi contesti («Vent’anni dopo torna E.T. porta business e buonismo», La Repubblica, 17 marzo 2002; «[…] al suo sadomasochismo infantile che pareggiava un tritolo e dinamite il buonismo della Disney, al suo segno grafico netto e aguzzo, espressionista e grottesco», Corriere della Sera, 24 febbraio 2002).
Ma fu probabilmente la sua specializzazione politica a decretarne il definitivo successo (che risalirebbe al biennio 1997-98): a farlo diventare oggetto – niente meno – che di una puntata speciale del Maurizio Costanzo Show del gennaio 1998, intitolata «Gli italiani sono buoni o più semplicemente buonisti?»; e a farlo entrare nell’edizione del Vocabolario Treccani dello stesso anno, con il significato di «ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e di benevolenza».
Il tratto ironico-canzonatorio degli inizi fu presto soppiantato da quello offensivo. Ne ebbe a scrivere Lietta Tornabuoni su La Stampa, il 23 marzo del 2000, e vale la pena riportare per intero il suo pezzo, dal titolo: «Buonista sarà lei»:
Ecco fatto: la parola ‘buonista’ è diventata un insulto. Sin dall’inizio, si capisce, aveva una connotazione negativa: definiva infatti non chi pratica la bontà , ma chi la ostenta, chi la proclama con unzione, chi ne fa un’esibizione sistematica a proprio vantaggio. Poi il termine buonista è passato a indicare quella sinistra alla Veltroni un po’ melensa, sentimentale, a volte infantilmente amante di figurine e giochi, sensibile alle canzoni e al pathos, di cuore tenero. Adesso buonista ha perduto ogni legame, anche vago o remoto, con la bontà; che del resto da noi è sempre stata una virtù pochissimo apprezzata ed esercitata, riservata alle suore e ai preti e ai santi e ad altre entità religiose, mentre l’astuzia veniva socialmente molto più stimata. Adesso, nel linguaggio della gente esasperata, reazionaria o divenuta tale per paura e sfiducia, buonista condensa una miriade di idee e comportamenti non conservatori, non violenti: è buonista chi vuol veder rispettati i diritti di ciascuno, incluse le donne; chi non ributterebbe a mare quelli che cercano di emigrare in Italia, non li ammazzerebbe tutti indiscriminatamente non li ricaccerebbe a morir di fame al loro Paese; chi ritiene che la società abbia dei doveri verso i cittadini svantaggiati; chi non terrebbe i detenuti sempre incatenati nelle loro celle, in violazione delle leggi vigenti; chi ama e protegge gli animali; chi detesta il motto «chi è causa del suo mal pianga se stesso»; chi vorrebbe salvare il nostro ambiente dalla devastazione e dall’inquinamento; chi per delicatezza non dice «storpi, ciechi, muti, mongoloidi» eccetera; chi ha compassione per le persone nei guai e pensa che debbano essere aiutate, non giudicate. È vero che la cultura democratica è responsabile di velleità, esagerazioni, melensaggini ed astrazioni tali da far venire anche la bava alla bocca. È vero che da noi anche il sistema dei diritti, come tutto, è poco concreto e molto parolaio, è soprattutto una voga verbale così invadente e ossessiva da suscitare reazioni e comportamenti negativi. Ma nei fatti il disprezzo del buonismo maschera le solite, eterne idee e idiosincrasie della vecchia destra, stavolta sostenute pure da parecchi intellettuali desiderosi di mostrarsi controcorrente, liberi e birichini. Alla fine, brutta situazione. I cattivisti non vanno bene perché sono malvagi, e spesso fumano. I buonisti non vanno bene perché sono deboli, e a volte vegetariani. Cosa rimane?
Che cosa rimane, si chiedeva Tornabuoni? E tornando all’attualità, che cosa è rimasto della resistibile ascesa di quella coppia di parole?
A noi è rimasto di certo, oggi, quell’ultimo slittamento semantico: quello che «nel linguaggio della gente esasperata, reazionaria o divenuta tale per paura e sfiducia, buonista condensa una miriade di idee e comportamenti non conservatori, non violenti: è buonista chi vuol veder rispettati i diritti di ciascuno, ecc.».
È rimasto l’uso reiterato – quasi un mantra – generico e ingiustificato di termini che creano una categoria uniforme e omogenea di pensiero (il “buonismo”): una categoria – quella dei “buonisti” – quasi antropologica, capace addirittura, una volta antropizzata, oggettivata, realizzata nel discorso, di causare addirittura disastri sociali. Addirittura la morte di centinaia di esseri umani.
Sostantivi de-aggettivali (da buono, con aggiunta dei suffissi –ismo e –ista, tipici di movimenti e dottrine politiche e religiose, e dei loro seguaci), a rigor di logica buonismo e buonista dovrebbero conservare dalla loro radice uno straccio di connotazione positiva (legata al buono, alla bontà: categorie morali care al cristianesimo), di cui invece esprimono soltanto – grazie a un abile rovesciamento prospettico, a una efficace “dissonanza cognitiva” – la negazione: e così i cattivi se la prendono coi buoni perché non possono esserlo, e quelli che sulla carta dovrebbero essere i buoni passano per cattivi.
Strana genie, questa dei “buonisti”. Una vera e propria lobby politica e imprenditoriale, ipocrita e affarista, appunto, a giudicare da titoli come «Prima le coop, ora la Caritas. Gli affari sporchi dei buonisti». Non è dato sapere chi siano davvero questi buonisti, da che cosa siano veramente caratterizzati (non certo dalla bontà, questo è chiaro), ma esistono eccome: perché continuamente nominati. E basta questo per far renderli categoria, soggetto reale. Res sunt consequentia nominis, verrebbe da dire ribaltando un celebre aforisma.
Ma non è soltanto l’abuso, l’iterazione, il mantra che sconcerta. È anche, e soprattutto, la funzione discorsiva e retorica che si fa di questi termini. La loro funzione apodittica, conclusiva. Ve la ricordate la «Bomba fine di mondo» del Dottor Stranamore di Kubrick? Quella della distruzione totale, quella dell’armageddon? Ecco, chi usa buonismo e buonista cerca di far detonare la sua retorica “bomba fine di mondo”: quella dopo la quale nessun discorso è possibile, nessuna opinione discutibile, nessuna difesa allestibile da chi ne viene colpito. Una volta accusati di buonismo, non ci resta che incassare, starcene zitti e girare (metaforicamente) i tacchi. Siamo comunque dalla parte del torto, secondo i nostri detrattori. E come puoi rispondere a una “bomba fine di mondo”, d’altronde? O alzi il livello di scontro, o prendi e porti a casa…
Eppure. Eppure, come ha rilevato causticamente Alessandro Robecchi pochi giorni fa su Il fatto quotidiano («Hate speech e cattivismo. Sono un italiano, così umano che quasi quasi li amazzerei tutti», 22 maggio 2015), il paradosso oggi è dato dal fatto che proprio l’abuso mediatico di buonismo (e buonista) nasconde ex contrario un “cattivismo” senza precedenti nel linguaggio politico italiano, e nella prassi di alcuni leader politici.
Basterebbe con la stessa virulenza e lo stesso tono far circolare la coppia cattivismo/cattivista per riequilibrare un po’ il dibattito? Se deve essere una battaglia a suon di epiteti, che almeno si venda cara la pelle.
Ma no, non basterebbe. Perché il problema non è di ridurre in caciara il confronto, lo scontro. Il problema è di de-costruire un linguaggio viziato per svelarne le fallacie, le fragilità, l’inconsistenza. E finalmente uscire dall’angolo e riprendere il centro del ring. Non per depurare il linguaggio (ecco l’accusa gemella, altrettanto vacua e irrisoria, sempre in bocca agli anti-buonisti: i buonisti sono politicamente corretti…), ma per rendere adulto il dibattito: mantenuto a livelli insopportabili di infantilismo proprio da chi in questi anni, e certamente sulle questioni legate ai fenomeni migratori, ha accusato ogni apertura, ogni ipotesi non poliziesca o militaresca di essere “buonista”.
In retorica si chiama “fallacia ad hominem”: prendersela con qualcuno invece di contrastarne, discutendole, le idee. Lo facevamo da piccoli: «Sei cattivo perché hai il naso storto!», «sei piccolo e brutto, non puoi parlare». Lo fanno anche quelli che accusano di buonismo a vanvera: «Sei politicamente non credibile perché sei buonista». Accusare di buonismo una categoria più o meno indefinita di persone per colpire l’articolazione di proposte politiche alternative, senza peraltro averle discusse e contestata nel merito. «Sei buonista, quindi le tue idee saranno per forza buoniste»: pertinenti al massimo alla sfera della morale, non certo a quelle del realismo politico.
Il realismo politico: è proprio questo il punto. Il problema non è stabilire chi è più buonista o cattivista. Il problema è far capire che sono i cattivisti – invece – a non essere politicamente realisti. Come già lucidamente suggeriva Manconi in quella risposta del 1995. Giocare in difesa non basta più. Occorre rilanciare. Dicono “buonisti” perché si chiedono corridoi umanitari? Perché si dice che la situazione nei campi rom è insostenibile? Perché si chiede che la cittadinanza italiana deve essere data a chi è nato e cresciuto in Italia? Nò, non è buonismo chiedere che la legge sia uguale per tutti, pretendere il rispetto dei diritti umani, sbugiardare le balle di tanta informazione. Né è buonista aspettarsi che uno stato democratico, con tanto di Costituzione, abbia una politica che protegga i soggetti più deboli, che garantisca parità di accesso a strutture, risorse, possibilità. Si chiama stato sociale. Si chiama democrazia rappresentativa e redistributiva.
Ma è proprio per non parlare di queste cose che si coprono le carte e anzi si rovescia continuamente il tavolo da gioco. Fu una tecnica già adottata con successo dalla destra statunitense sul finire degli anni Ottanta, per ridicolizzare il dibattito sul politicamente corretto, che pure aveva istanze forti, motivate, non banali. A leggere certi quotidiani il problema non è l’assenza di democrazia, il mancato rispetto dei diritti umani, la vergognosa invisibilità mediatica a cui vengono condannati persone, gruppi, minoranze, ma la presenza di una fantomatica dittatura: la dittatura del buonismo («La dittatura del buonismo che domina anche internet», Il Giornale, 1° aprile 2015). Quei quotidiani, proprio loro, che hanno fatto dei titoli urlati, dell’attacco indiscriminato ai migranti, della cattiva informazione la loro carta vincente. Proprio quei media che hanno decretato in Italia l’arroganza dell’insulto, dell’argomentazione zoppicante, dell’uso distorto delle statistiche, della costruzione nel discorso di un nuovo nemico pubblico: il famigerato “clandestino”.
Senza parlare del fatto che questo “buonismo” dittatoriale è così potente e pericoloso da essere preso a calci da tutti. Da essere messo alla berlina da chiunque, senza tante storie. Basta fare un giro su scketchengine, portale che raccoglie ampi corpora di dati raccolti in rete, tra blogs, news, e pagine internet. Uno di questi corpora, forte di milioni di tokens, dà un quadro preciso dello stato di salute nella blogosfera delle parole buonismo e buonista. Se non consideriamo solo le parole isolate, o le co-collocazioni ad esse più vicine, ma anche i clusters di parole di cui i termini sono nodo, abbiamo un ritratto semantico impietoso: “melassa”, “pietismo”, “lassismo”, “assistenzialismo”, “retorica”, “ipocrisia”, “propaganda”, “perbenisti”, “benpensanti”, “finti” (per buonista/i), “peloso”, “stucchevole”, “falso”, “dilagante”, “irresponsabile”, “permissivismo”, “perdonismo”, “perbenismo”, “moralismo”, “sentimentalismo”, “ipocrisia”, “demagogia” (per buonismo). Poca argomentazione: molta irosa aggettivazione.
Lungi dall’essere i nuovi tiranni della orwelliana neo-lingua, buonismi e buonisti sono piuttosto bersaglio indiscriminato degli strali di un pensiero protervo e diffuso: che non ha bisogno di confrontarsi ma, piuttosto, di ridicolizzare e zittire l’altro. Perché, appunto, sganciando la “bomba fine di mondo” pensa – e spera – di mettere al tappeto l’avversario: di oscurarne le proposte, insultandolo.
Ecco, è questa la posta in gioco. Alla faccia del buonismo.
Federico Faloppa*
*Docente di Storia della lingua italiana e Sociolinguistica all’Università di Reading (Gran Bretagna) e autore di Lessico e alterità: la formulazione del diverso (2000) e Razzisti a parole (per tacer dei fatti) (2011)