Che fare della scuola italiana? Davvero la scuola italiana è così pessima come ci raccontano da anni? Se leggiamo le classifiche internazionali sembrerebbe proprio di sì. Secondo i dati Ocse l’Italia è molto indietro nelle classifiche internazionali che misurano la capacità di comprensione di un testo scritto, di matematica e scienze (ma non la filosofia, purtroppo…). In una ipotetica classe internazionale noi italiani saremmo messi tra gli “asini” o quasi. Ma le cose non stanno così. La prova empirica viene dagli studenti italiani che frequentano un anno di scuola all’estero, e anche se a casa sono così così, spesso si ritrovano ad essere tra i primi della classe. Un’altra prova viene dalla ipercriticata (spesso giustamente) università italiana, che produce pochi laureati, che spesso restano senza un lavoro adeguato, ma i molti ricercatori italiani –che sono costati un “patrimonio” di soldi e cultura- che se ne vanno all’estero vengono considerati eccellenti.
Ma la scuola italiana, nella narrazione corrente, continua ad essere considerata pessima, o quasi. Forse il problema è che le misurazioni internazionali vengono fatte –inevitabilmente- con dei test (Pisa nel caso dell’Ocse) e noi, come abbiamo visto in questi giorni, siamo refrattari alla valutazione fatta con le “crocette”. Ha certamente mille volte ragione chi afferma che la valutazione degli studenti deve essere globale, fatta di impegno, di sguardi, attenzione, partecipazione e capacità critica, ma questo non nega che si debba sapere se la Liberazione in Italia è avvenuta: a) 8 settembre 1943, b) 25 aprile 1945, c) 2 giugno 1946. La crocetta “giusta” va messa sulla “b” e questo non è bieco nozionismo, ma un punto fisso di una rete di conoscenza più ampia. I test sono solo un frammento della valutazione degli studenti, dei professori e -per la proprietà transitiva- dell’intera scuola, ma sono utili e veloci. Ai test ci si può allenare, per gestire tempi, emozioni e risultati, e non si deve aver paura del confronto. Il boicottaggio dei test Invalsi, in modo più o meno creativo da qualche presunto “buontempone”, è il sintomo del rifiuto –frutto avvelenato di una paura ingiustificata- della scuola italiana di farsi valutare. Eppure, senza misurazione non c’è qualità.
L’ipotesi di un “preside sceriffo”, nella prima stesura della presunta #buonascuola, era veramente inquietante ed è stata fortunatamente ridimensionata, ma tutti a scuola sanno chi sono i docenti che si fanno in quattro, organizzano gratuitamente corsi alternativi, teatro, scambi culturali e mille altre iniziative, e chi invece si trascina stancamente da un’aula all’altra. Possibile che chi lavora di più e meglio non debba essere “riconosciuto” e premiato? E perché non fidarsi della valutazione degli studenti –che sono il vero “focus” della scuola- nei confronti dei loro docenti (con l’applicazione della “curva di Gauss” che elimina gli eccessi)? Sempre a proposito della presunta #buonascuola –che deve restare pubblica e laica- qualcuno dice che è una “scuola per ricchi”, perché introduce la possibilità di raccogliere fondi aggiuntivi grazie alla donazione del 5 per 1000. Per riequilibrare questo rischio basterebbe assegnare il 50% di queste donazioni alla scuola di provenienza e l’altro 50% alle scuole meno “ricche” e fortunate, senza dimenticare che la battaglia contro la dispersione scolastica, diffusa prevalentemente al sud, deve essere strategica per tutti. La presunta #buonascuola prevede l’assunzione di circa 100.000 precari, ma non si deve dimenticare che per anni lo stato italiano si è comportato come gli scafisti, costringendo migliaia di giovani docenti a pagarsi dei corsi di formazione per essere traghettati verso una cattedra, alla quale –invece- si dovrebbe accedere solo per concorso.
La forza e la travolgente velocità comunicativa di Renzi si è improvvisamente impantanata quando ha affrontato il tema della scuola ed ha avuto una risposta di massa, gioiosa e creativa, di studenti e professori, tendenzialmente diffidenti nei confronti di ogni innovazione.
Certo, è vagamente imbarazzante il premier Matteo Renzi che cerca di spiegare alla lavagna la sua presunta #buonascuola, ma forse non ha tutti i torti quando parla di qualità e merito, perché un paese che non investe, non ascolta, non vuole bene alla propria scuola resterà senza futuro. Ci sarà, prima o poi, #lasvoltabuona?