1915-2015: la barbarie non è finita

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“Sono così brevi i giorni dei vent’anni” scrisse Renato Serra, morto sul monte Podgora a soli trent’anni, dopo essere partito come volontario per una delle guerre più stupide e sanguinose che siano mai state combattute nella storia dell’umanità.

Perché è inutile star qui a riflettere sull’assassinio dell’Arciduca d’Austria, Francesco Ferdinando, e di sua moglie Sofia, così come è abbastanza superfluo dedicarsi allo stucchevole computo dei morti e dei feriti o ricordare, una per una, da Caporetto e Verdun in giù, tutte le tremende battaglie che hanno segnato quel conflitto. Ciò che è bene inquadrare è, invece, il contesto storico in cui la Prima guerra mondiale si sviluppò, con un’Europa reduce da un quarantennio di sostanziale benessere, chiamato “belle époque” non solo per l’innegabile sviluppo scientifico e tecnologico verificatosi ma, soprattutto, per l’inedita, lunga stagione di pace che caratterizzò quel periodo, fino alla duplice, e pressoché contemporanea, crisi di due assi portanti del Vecchio Continente quali l’Impero ottomano e quello austro-aungarico.

Quella guerra – su questo concorda la maggior parte degli storici – segnò una svolta decisiva, e purtroppo negativa, per l’Europa, in quanto dopo il 1918 nulla è stato più come prima, con la progressiva ascesa degli Stati Uniti e il lento scivolamento di chi aveva dominato il mondo per oltre quattro secoli in una condizione di subalternità, sancita definitivamente dopo gli accordi di Jalta e la conclusione del secondo conflitto mondiale.

E segnò una svolta anche per l’Italia, atroce, maledetta, con la devastazione che ne seguì e che condusse allo sfiancamento del vecchio Parlamento liberale e all’ascesa del fascismo, il quale ebbe buon gioco nel denunciare i fallimenti di una classe dirigente oggettivamente giunta al capolinea e responsabile di troppi errori, primo fra tutti proprio la guerra e l’inadeguata gestione dell’immediato dopoguerra.

Un contesto diverso, imparagonabile a quello attuale, per carità, ma sarebbe opportuno cogliere alcune somiglianze non secondarie: innanzitutto, per quanto riguarda l’elevato tasso di populismo presente sia tra i fascisti sia in numerose formazioni politiche attuali; in secondo luogo, per quanto concerne le condizioni in cui versa l’Europa, assente, divisa e nemica di se stessa e dei più elementari princìpi di solidarietà, comunità e uguaglianza, oggi come allora; infine, anche all’epoca eravamo in una fase di transizione, con un mondo che volgeva al termine e un nuovo mondo che ancora non era nato e che non sarebbe nato nei trent’anni successivi, fino al tremendo epilogo delle Leggi razziali, della Shoah, dei lampi su Hiroshima e Nagasaki e della necessità di ricostruire tutto, dopo aver distrutto le basi stesse del nostro stare insieme.

Ed ecco che ci tornano in mente le parole di papa Francesco circa lo scoppio di una Terza guerra mondiale, senz’altro moderna, senz’altro meno cruenta, priva di fango e di trincee ma non per questo meno violenta o con effetti meno devastanti. Una guerra differita, certo, combattuta nelle banche e sui mercati finanziari, nei grandi istituti internazionali e su frontiere lontane dall’Europa ma, ribadiamo, non per questo meno presente e dannosa di quella che un secolo fa insanguinò la nostra terra e vide centinaia di migliaia di ragazzi, compresi “i ragazzi del ‘99”, richiamati alle armi nel ’17 e costretti a morire ad appena diciott’anni, combattere e cadere per l’indipendenza di Trento e Trieste, per completare l’unificazione dell’Italia, per soddisfare l’irredentismo di un popolo ancora desideroso di portare a compimento il processo avviato con le Guerre d’indipendenza e per riscattare la dignità di un Paese che già allora era guardato con sospetto, come dimostra il terribile trattamento riservato a molti dei nostri migranti sia nel Nord Europa sia negli Stati Uniti.

Cento anni e nulla sembra poi così diverso: lo stesso imperialismo, la stessa sete di potere e di conquista, lo stesso desiderio di annientare il nemico e ridurlo in ginocchio, la stessa brutalità, la stessa ferocia, con l’aggiunta della fine di quel principio cavalleresco per cui le guerre si combattevano fra eserciti, salvaguardando la vita dei civili, e l’esaltazione delle logiche di sterminio, messe a punto durante la Seconda guerra mondiale e perfezionate nei settant’anni successivi.

Cento anni e ancora incutono timore quei camminamenti, al pari dei racconti, ormai affidati ai libri di storia, e delle testimonianze che si possono leggere in numerosi romanzi, nei saggi degli storici ma anche sui giornali dell’epoca, con la carsica divisione fra neutralisti e interventisti: un’autentica costante della vita patria che, purtroppo, ha visto quasi sempre i primi soccombere.

Cento anni e in mezzo una miriade di vittorie “mutilate”, a dimostrazione che la guerra è sempre e comunque una sconfitta: che la si combatta sulle rive dell’Isonzo o nel deserto iracheno, fra i monti dell’Afghanistan o nella Libia del fu dittatore Gheddafi.

Cento anni e ci rendiamo conto, commemorando l’ingresso dell’Italia in quella mattanza, che anche allora ci sembrava tutto normale, che anche allora eravamo convinti di essere destinati a vivere finalmente in pace, che anche allora qualcuno era sicuro che la democrazia avesse raggiunto l’apice e che il mondo fosse destinato a compiere un lungo percorso di fratellanza universale, benché il concetto di globalizzazione non fosse ancora nemmeno nella mente di Dio.

Cento anni e al Sacrario di Redipuglia ci si interroga su tutte le volte che abbiamo detto: “A me che importa?”, salvo poi trovarci al centro di un vortice stritolante che annulla ogni speranza, elimina ogni certezza e ci riporta in mente un’immagine straziante descritta da Giuseppe Ungaretti in una delle sue poesie più significative: “Di queste case / non è rimasto / che qualche brandello di muro / di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto / ma nel cuore / nessuna croce manca. / È il mio cuore / il paese più straziato”. Poi il silenzio e quell’eterna, lacerante domanda su quante volte abbiamo ceduto al demone dell’indifferenza, prima di essere trafitti da un orrore che, purtroppo, non risparmia nessuno.


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