Abbiamo bisogno di una fuffa che ci faccia sentire parte di un gruppo, che sia una dieta, una religione o un qualsiasi stile di vita, abbiamo bisogno di aggregazione, di sentirci parte di una compagnia insana che ci faccia sfogare liberamente senza farci troppo pensare. Perché riflettere costa fatica, perché aggredire e ritenere di avere una qualsiasi verità in mano ci fa sentire meno deboli, perché aprire veramente gli occhi sugli orrori del mondo fa male. Pensare alla Siria fa male, leggere notizie sulla disperata situazione del campo profughi di Yarmouk è come ricevere un cazzotto nello stomaco, vedere le foto dei ragazzi massacrati in Kenya e in Nigeria dalla follia dei terroristi ci fa sentire impotenti e ci riempie di paure. Eppure il mondo reale è questo, quello dove la vita è appesa costantemente ad un filo, la vita di 230 milioni di bambini che vivono in aree colpite in conflitti armati, la vita di 2,2 miliardi di persone che vivono in povertà o al limite dell’indigenza, la vita di coloro che vivono nelle fogne, dei milioni di bambini che vivono per la strada dove sono nati e dove sono stati abbandonati alla mercé di milizie e della polizia corrotta (in Brasile ogni giorno 4 bambini vengono assassinati).
E noi, forti delle nostre tastiere e dei nostri smartphone, ci lamentiamo delle ingiustizie che subiamo, noi che dormiamo al caldo e che facciamo regolarmente colazione, pranzo e cena, aggrediamo verbalmente chi spende parole verso le persone che, rischiando la propria vita perché non hanno altra scelta, cercano di arrivare sulle nostre terre. Siamo vili, immaturi, egoisti, viviamo costantemente dominati dal nostro piccolo io, non ci apriamo agli altri, non abbiamo cuore, non abbiamo interessi esterni al nostro piccolo orticello. Ci sentiamo poveri, costantemente fregati dal sistema, dal cattivone di turno, ci lamentiamo, noi che una scelta l’abbiamo diversamente dai 250.000 di bambini soldato o delle bambine vendute come mogli o schiave sessuali in Yemen, Vietnam, Siria, Nigeria, Afghanistan e in altri luoghi dimenticati da un qualsiasi Dio.
Io sono come voi, ma non voglio esserlo, non voglio essere incattivita e cieca, allo stesso tempo non voglio sentirmi impotente.
Troppo spesso mi chiedo cosa si può fare perché, anche se decidi di sostenere una causa piuttosto che un’altra, ti senti come chi cerca di tappare con le dita le falle di una barca il cui legno ha ormai solo grandi buchi.
Allora penso alla canzone di Leon Gieco “Solo le pido a Dios” che dice: a Dio chiedo solo di non essere indifferente alla guerra, all’ingiustizia, al dolore. A Dio chiedo soltanto che la rabbia non mi esca dalla mente, che il passato non sia dimenticato, che il futuro non mi trovi diffidente perché c’è ancora tanto da inventare per costruire una cultura differente.