Con il disegno di legge varato il 27 marzo il Governo chiede al Parlamento un’ampia delega per riformare la Rai e per riordinare l’intero sistema televisivo. Poiché il testo diventerà la base dell’attività legislativa, che in prima lettura dovrebbe toccare al Senato, può essere utile analizzarlo nel dettaglio.
Il DL del governo
Art 1. Trasferisce dal Ministero delle Comunicazioni al Consiglio dei ministri la responsabilità di indirizzo del Contratto nazionale di servizio e ne stabilisce la durata in 5 anni anziché 3.
Art.2 Porta da 9 a 7 i componenti del Consiglio di Amministrazione e ne cambia modalità e fonte di nomina.
Nel sistema vigente, 7 membri vengono indicati dalla Commissione Parlamentare di vigilanza (4 un rappresentanza della maggioranza, 3 dell’opposizione) e 2 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ma uno di questi ultimi, destinato a svolgere le funzioni di Presidente, deve ottenere il gradimento dei 2/3 della Vigilanza.
Nel consiglio previsto dalla nuova legge, 2 membri vengono eletti dalla Camera, 2 dal Senato, 2 dal Consiglio dei ministri su proposta del Ministero dell’Economia e uno dall’Assemblea dei dipendenti Rai. Se nel vecchio Consiglio, il Governo e la sua maggioranza, potevano contare su 5 consiglieri sui 9, le opposizioni su 3 il mentre il Presidente veniva scelto di concerto, nel nuovo consiglio, Governo e maggioranza potranno contare su 4 consiglieri su 7, le opposizioni su 2, scompare il Presidente di Garanzia mentre entra un rappresentante dei dipendenti.
Il Direttore Generale diventa Amministratore Delegato. Nominato dal Consiglio, sarà scelto (come oggi il DG) fuori della Rai su indicazione dell’azionista, cioè del governo, e resterà in carica 3 anni. Ma -ecco la novità- non potrà esser assunto a tempo indeterminato e potrà essere revocato (dal Consiglio e dall’azionista) senza ricevere, in tal caso, più tre mesi di indennità compensativa.
Art 3 consegna all’Amministratore delegato poteri più ampi di quanti non ne abbia mai avuti un Direttore Generale. Innanzitutto lo libera dagli obblighi previsti dal decreto legislativo N 163 del 12 aprile 2006 (codice dei contratti pubblici) per quel che riguarda l’acquisto, lo sviluppo, la produzione o la co-produzione e le relative acquisizioni di tempo di trasmissione di programmi radiotelevisivi. Chiarisce che non sono soggette a vincolo forniture di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria. E consegna all’AD il compito di definire, egli stesso, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi.
Già oggi, invero, il DG ha il potere di nominare dirigenti aziendali (reclutandoli, se ritiene, fuori dall’azienda) ma non può farlo per i Direttori Giornalisti e deve rispettare un tetto per le spese. Il nuovo AD avrà più poteri discrezionali e potrà definire criteri per le assunzioni e le promozioni.
Art 4 Entro 12 mesi dall’approvazione della legge delega, il Governo dovrà decidere delle risorse Rai, aumentare o ridurre l’importo del Canone, prendere provvedimenti per combatterne l’elusione, semplificare le procedure, adeguare le norme al nuovo assetto societario. In pratica potrà decidere su quali risorse l’azienda pubblica televisiva possa contare e, di conseguenza, cosa possa (o non possa) fare.
Art 5 abroga gli articoli 17 e 20 della legge Gasparri e l’articolo 50 del Testo Unico (contratto di servizio). Delega il Governo ad adottare entro 12 mesi modifiche al Testo Unico per le radiotelevisioni ma nel rispetto dell’articolo 16, comma 1 della legge Gasparri. Siccome tuttavia quel Comma impegnava il governo a emettere il testo unico nel rispetto della Costituzione e delle norme dell’Unione Europea, in pratica il Governo si lascia aperta la possibilità di riscrivere l’intero decreto 31 luglio 2005, n. 177. Materia sensibile, in quanto fissa i principi generali del sistema radiotelevisivo, del pluralismo e della concorrenza, e indica le regole per l’attribuzione delle frequenze televisive! Quel nel rispetto delle indicazioni della legge Gasparri, può essere interpretato come una mezza promessa (il governo non intende intervenire su diritti acquisti da Mediaset!) o invece soltanto come una manovra elusiva e inagnnatrice.
Contro il duopolio
Il primo grave limite della proposta governativa consiste proprio in questo. Nella scelta di non affrontare, o di rinviare, il nodo dell’assetto radiotelevisivo, scegliendo di ignorare una attività legislativa, lunga 25 anni, che ha fondato e poi protetto il duopolio televisivo Rai – Mediaset.
La legge Mammì è del primo agosto 1990. Fu detta “legge fotocopia” perché fotografava lo stato dei rapporti di forza e lo traghettava verso il futuro. A Rai e Mediaset si concedeva la possibilità di controllare 3 reti a testa e di accaparrarsi il grosso delle risorse pubblicitarie. La legge, approvata con voto di fiducia e battezzata dalle dimissioni clamorose di ben 4 ministri, violava in modo palese la direttiva comunitaria “Televisioni senza frontiere”. Verrá dunque cassata dalla sentenza 420 della Corte Costituzionale nel 1994 proprio per la parte che consentiva a un solo soggetto di ottenere tre concessioni e il 25% (anziché il 20) del totale delle risorse.
Nel 1997 la legge Maccanico corresse la Mammì ottemperando formalmente ai rilievi della Corte, reintroducendo, cioè, il tetto del 20% e stabilendo che a nessun operatore potessero spettare più di due reti. Però, in seguito all’approvazione della legge, né Rete 4 passò mai sul satellite, né RaiTre rinunciò mai alla pubblicità. Nonostante fosse intervenuta una nuova sentenza della Corte, la 466 del 2002, a confermare il giudizio del ‘94.
Nel 2004, la legge Gasparri aggirò i divieti -e mise al riparo il duopolio- semplicemente allargando la torta su cui calcolare il limite alle concentrazioni. Nacque il SIC, Sistema Integrato della Comunicazione, che comprendeva anche stampa quotidiana e periodica; editoria, anche per il tramite di Internet; radio e televisione; cinema e pubblicità. Una torta non più da 12 miliardi (come era prima) ma da 26 miliardi. Di conseguenza il limite del 20% diventava, in valore assoluto, più alto del 30% concesso da Maccanico. Scrive Claudio Tito su Repubblica, “ tuttora quasi il 505 del mercato pubblicitario è occupato dalle tv. E di questa quota oltre il 60% è in mano alle emittenti del Cavaliere”.
Il duopolio ha impedito per un quarto di secolo una più ampia e libera concorrenza nel settore televisivo, ma ha finito con il danneggiare anche Rai e Mediaset.
La televisione pubblica,infatti, costretta a inseguire il concorrente privato sul terreno dell’appeal commerciale, ha via via rinunciato a sperimentare programmi innovativi, ha preso ad acquistare gli stessi format, le stesse fiction, e a corteggiare le stesse star del piccolo schermo, pagando spesso i medesimi produttori del competitore duopolista.
Mediaset, per la sua parte, si è chiusa nell’ambito del duopolio, si è impigrita fino al perdere l’iniziativa (e dunque il primato) tra le televisioni commerciali. Oggi Sky occupa, con la sua pay tv, lo spazio (il satellite) lasciato libero dal duopolio, propone eventi sportivi, fiction di migliore qualità, sia selezionate dal ricco repertorio anglo sassone sia prodotte autonomamente (Gomorra, 1992) e si afferma sul terreno dei format, con competizioni canore o culinarie.
In un’intervista al blog di Beppe Grillo, Enrico Mentana si chiede: Ci deve essere ancora un telecomando con i primi 7 posti decisi, tre RAI, tre Mediaset, uno La7 e un monopolista della televisione satellitare, cioè Sky? O questo è un quadro che può cambiare? Una domanda che il legislatore non dovrebbe eludere ma che il governo (quantomeno) rinvia a una successiva mediazione fra poteri. Sarà utile tornare allo spirito della Direttiva “Televisioni senza frontiere”, che vietava a un solo operatore di occupare più di un quinto del mercato; tetto del 20% per concessioni e risorse.
Canone, risorse
Della Rai è facile denunciare gli sprechi, ricordando le liquidazioni generose o l’assunzione a tempo indeterminato di Direttori Genarali, o il numero eccessivo di giornalisti e tecnici inviati a far da codazzo a un Premier in trasferta, o ancora i troppi giornalisti in organico e, fra loro, i troppi che sono stati promossi dirigenti.
Eppure la Rai soffre da anni di una strutturale carenza di risorse (rispetto ai compiti che le sono affidati) e di una relativa incertezza sull’entità delle risorse stesse. Carenza, in parte usata come alibi, in parte causa reale della perdita di identità culturale e di autonomia ideativa della Rai. Dalla pubblicità, infatti, l’azienda concessionaria del servizio pubblico ottiene solo un terzo della torta che spetta a Mediaset. Questa per via dei limiti all’affollamento pubblicitario e della risorsa Canone di cui solo Rai dispone. Quanto al canone, è fra i più bassi in Europa: un cittadino svizzero paga 360 euro l’anno, uno svedese 232 euro e 215 un tedesco, 185 un cittadino del Regno Unito, 133 euro un francese e “solo” 113 un italiano. Da noi, poi, l’elusione è fortissima e si aggira intorno al 27% del dovuto.
Certo, sborsare quasi 10 euro al mese può diventare un problema per molti focolai già colpiti dalla crisi, e il fatto che non sia prevista fascia esente né tassazione progressiva, fa apparire il Canone come un tributo imposto dallo Stato in cambio di un servizio meno attraente di quello proposto a pagamento da Sky e sostanzialmente analogo a quel che Mediaset pretende di offrire “gratis”. È la conseguenza di una delegittimazione del servizio pubblico.
La nuova legge non può dunque rinviare la questione delle risorse e affidarla alla buona volontà dell’esecutivo, ha il dovere di fissare nuove modalità di pagamento (certamente progressive e che prevedano una fascia sociale esente) e di riqualificare questo tributo, indicando chiaramente che esso intende garantire a ogni cittadino italiano l’accesso all’informazione radio tevisiva e alla rete, e indicando quali servizi culturali, di divulgazione scientifica e d’inchiesta giornalistica debbano rappresentare un adeguato corrispettivo al pagamento del contributo.
Rai, di tutto di più
Qui però occorre riconoscere cosa è diventata la Rai dopo 25 anni di duopolio, metà dei quali hanno visto il fondatore del monopolio privato con le mani in pasta, in quanto presidente del consiglio, nelle scelte della tv pubbliva
Una televisione commerciale. La Rai oggi è anche questo. Un competitor che deve inseguire gli ascolti per non cedere quote di mercato pubblicitario. Che ricorre ai quiz per sostenere l’ascolto del telegiornale di prima serata, che offre nel pomeriggio programmi ammiccanti e di gossip -talvolta volgari-, e di sera infotainment (con i plastici di Bruno Vespa, sorta di versione italiana delle bretelle di Larry King). È una televisione che ha mantenuto una primazia negli ascolti, ma che è difficile definire “servizio pubblico”
Una televisione di “servizio”, Rai lo è certamente quando destina -secondo il dettato della legge- almeno il 15% dei suoi ricavi alla produzione di opere audiovisive italiane ed europee. E lo è perché sa ancora proporre trasmissioni d’inchiesta giornalistica indipendente, perché ha nel suo repertorio (e talvolta propone) autentici tesori della storia e della cultura italiane, perché sa offrire buone trasmissioni di divulgazione scientifica e storica.
C’è poi una terza Rai, delle regioni. Con 24 sedi locali, oltre 700 giornalisti, impiegati, tecnici dirigenti. Ne ha parlato di recente Milena Gabanelli, sul Corriere della Sera, per denunciarne gli sprechi. In effetti, si tratta di una struttura pesante, costosa e non bene utilizzata, ma che rappresenta per molti parlamentari e politici locali il luogo privilegiato del servizio pubblico, la palestra per le interviste, il megafono dei messaggi da lanciare al proprio elettorato. Fu pensata negli anni 70, sull’onda della nascita delle Regioni, quando il decentramento politico e amministrativo dello Stato appariva a molti l’occasione per rinnovare la Rai. Ogni giorno Rai Regione produce alcune edizioni dei telegiornali regionali, con stilemi assai simili a quelli utilizzati per la cronaca politica e parlamentare dai Tg nazionali. Non propone invece radio-telegiornali specialmente dedicati alle aree metropolitane, dove sicuramente esiste una dimensione della cronaca che il servizio pubblico potrebbe coprire. Né Rai Regione ha mai risolto la contraddizione fondamentale: se essere una televisione del territorio per il territorio o un enorme ufficio di corrispondenza per la Rai nazionale.
Una legge d’indirizzo potrebbe chiedere alla Rai di separare le tre funzioni, convogliandone in altrettante sotto aziende, con risorse e intenti che appaiano più trasparenti.
Scorporare Rete Uno. Per quanto riguarda la Rai commerciale, Il senatore Mucchetti ha di recente proposto, sul Sole24Ore, di separarla dal resto dell’azienda, concentrare la pubblicità solo su questa rete e di farne una public company, un’impresa autonoma a proprietà diffusa e frazionata. Potrebbe essere una buona soluzione per il futuro, ma la storia insegna quanto i tentativi di privatizzazione forzosa siano rischiosi e non sempre destinati a sortire buoni risultati. Potrebbe essere saggio procedere per gradi. Intanto attuare una separazione funzionale, poi, e se e in quanto funzioneranno buone leggi anti trust, porsi il problema di una eventuale privatizzazione.
Rai di servizio. Si potrebbe riunire in un’unica rete il meglio della produzione di documentari, della fiction italiana ed europea, delle trasmissioni di divulgazione storica, artistica e scientifica. E in un’altra rete, la produzione di news, cronaca, politica, economia, dirette, programmi d’inchiesta, e di approfondimento dell’attualità. Con la sperimentazione di trasmissioni informative in inglese e arabo (solo la Rai, tra i grandi network pubblici europei trasmette esclusivamente in madre lingua). Due reti, dunque, senza pubblicità e finanziate dal Canone.
Infine, Rai regione, i cui costi verrebbero coperti in parte dal canone, in parte con il concorso di risorse pubblicitarie locali e di contratti e commesse con Istituzioni Regionali. La scommessa è di garantire un’informazione prodotta dal territorio per il territorio. Sfidando le private televisioni locali o con esse consorziandosi. Con una maggiore elasticità, quanto all’individuazione del bacino dell’utenza, che oggi il digitale consente: dall’offerta di radio – telegiornali per le aree metropolitane, alla sperimentazioni di trasmissioni e Tg che coprano aree più vaste di quelle contenute nel recinto regionale. Un cantiere per il futuro: lo stesso governo sta ragionando sull’opportunità di concentrare e ammodernare l’intera struttura delle autonomie. Questo il compito primario : eventuali contributi delle sedi regionali ad altre strutture Rai potranno continuare ad essere erogati in cambio di un corrispettivo economico. Così concepita, Rai Regione finirebbe di essere un costo ma potrebbe persino riunire e valorizzare risorse, anche economiche e pubblicitarie, che esistono dal Trentino Alto Adige alla Sicilia.
Insomma una Rai tripartita, non per aree di appartenenza ideologica, come fu un tempo, ma in funzione della vocazione: commerciale, culturale informativa, territoriale.
Spoil system
La Rai ha una storia antica. La stessa polemica sulla lottizzazione e sull’invadenza dei partiti spesso rievoca, spesso in modo non consapevole, un trauma che risale al lontano 1987,quando furono nominati al vertice della Terza Rete Angelo Guglielmi e Alessandro Curzi, personalità diverse tra loro, ma che entrambe non provenivano delle culture che allora erano di governo e perciò dominanti in Rai. Per taluni osservatori quelle nomine segnarono la fine della diversità comunista, per altri l’inizio dell’omologazione delle opposizioni alle pratiche spartitorie. Polemiche aspre che hanno oscurato l’innovazione che quella scelta avrebbe portato: la Terza Rete di Gugliemi, di Curzi e di Santoro ha forse rappresentato l’ultima esperienza innovativa di cui Rai sia stata capace.
Da allora si parla di lottizzazione, di spartizione fra tutti i partiti, dimenticando che quella stagione durò poco (fu chiusa già durante il governo dei Professori -Presidente De Mattè, direttore Generale Locatelli- che credettero di dover intervenire sulle scelte editoriali di Reti e Tg perché non apparissero troppo parziali.
Dal 1994 è prevalso un modello diverso, quello dello Spoil System e dalla dittatura, in Rai, dei governi che si sono alternati, i quali lasciavano alle opposizioni niente di più che una riserva indiana.
Dopo il 94 Billia e Minicucci furono Direttori Generali al tempo della prima esperienza di governo per Berlusconi, Carlo Rossella direttore del Tg1.
Poi vennero Iseppi, Celli e Cappon, durante la legislatura 96-2001 che vide succedersi tre governi di sinistra. In Rai (per iniziativa di Celli) si tentò una complessa riforma, con la creazione di divisioni, che avrebbero dovuto renderla più appetibile e contendibile per il mercato privato. Furono direttori del Tg1 Fava, Sorgi, Borrelli, Lerner, Longhi.
Ribaltone, dal 2001 al 2006 governa Berlusconi. Saccà, Cattaneo, Meocci direttori generali. Mimum al Tg1. È in questa fase che si colloca il famoso editto bulgaro e l’allontanamento di Biagi, Santoro, Luttazzi.
Con il governo Prodi, 2006-2008, Cappon torna Direttore Generale, con Riotta al Tg1. Poi ancora Berlusconi, con Masi e Lei Direttori Generali, Minzolini al Tg1. Per finire con le ultime scelte del governo Monti: Gubitosi DG, Orfeo al Tg1.
Uno spoil system che ha coinvolto ogni volta decine e decine di dirigenti, rovesciando l’indirizzo strategico dell’azienda (con una sinistra propensa a scegliere personalità esterne e giornalisti della carta stampata, e una destra che ha chiamato talvolta professionisti già sperimentati dal concorrente privato e ha difeso il carattere pubblico della Rai, a presidio del duopolio.
Può essere giusto che cambi in Rai il massimo responsabile operativo dell’azienda in sintonia con l’alternanza delle maggioranze parlamentari, ma uno spoil system generalizzato non può non inibire il formarsi di un’autonoma cultura del servizio pubblico. Non si programma una radio televisione di successo, che ottenga la fiducia e l’assenso degli utenti, se le linee guidano non sono al riparo dai cambiamenti indotti da ogni cambio di governo. In Rai questo sistema della nostra seconda repubblica ha creato incertezza, ha dato luogo a una lottizzazione invocata dagli stessi professionisti (della Rai o che in Rai volevano venire) perché, in assenza di regole che garantissero il merito e una certa continuità editoriale, cercare “protezione” dal sistema dei partiti appariva il solo modo per promuoversi o per difendersi da altrui scalate. E tuttavia un nucleo di professionisti ha saputo resistere e difendere l’idea di servizio pubblico.
Se questa è la storia vera, niente di nuovo nel disegno di legge Renzi. Una Rai saldamente controllata dal governo, cui succederà una Rai per un altro governo, e poi ancora, fino a distruggere ogni capacità e intelligenza autonome.
Una fondazione
Una Fondazione per la Rai. Soluzione ragionevole è di affidare i compiti di controllo e indirizzo della Rai a un gruppo ristretto di donne e uomini, nominati dai massini responsabili delle Istituzioni Repubblicane, sulla base di candidature volontarie preselezionate da istituzioni culturali e scientifiche (come l’Accademia dei Lincei o il CNR) e da organismi di mestiere (FNSI Autori Cinematografici).
Esaminati i curricula, sentiti i gruppi parlamentari e svolte pubbliche audizioni dei candidati, i Presidenti di Camera e Senato nomineranno due consiglieri ciascuno. Mentre il Presidente della Repubblica spetterà la scelta di un Presidente di Garanzia. La Fondazione resterà in carica per 5 anni e assumerà poteri e funzioni della Commissione di Vigilanza, che non avrà più motivo di esistere.
Una volta composta, la Fondazione per la Rai procederà alla nomina del Direttore Generale, scegliendo da una rosa di candidature avanzate dell’azionista, cioè del governo. Esaminati i curricula, e svolti colloqui con i candidati, la Fondazione sceglierà il DG la cui nomina verrà formalizzata dopo la presentazione di una lettera d’intenti.
Spetterà al Direttore Generale proporre alla Fondazione per la Rai la nomina di un Direttore per ciascuna delle tre attività dell’azienda. Il Direttore Generale, i 3 Direttori Operativi e un rappresentante delle maestranze, indicato dall’assemblea dei dipendenti e, nominato dal Consiglio della Fondazione (con procedura analoga alle altre nomine) formeranno il Consiglio di Gestione, che resterà in carica per 3 anni.
Un tale sistema consente al Parlamento di esercitare il suo diritto di proposta sugli organi di sorveglianza della Rai e al governo di esercitare lo stesso diritto sull’’organo di gestione. Al tempo stesso, le procedure di nomina, la pluralità degli enti coinvolti, la circolazione dei curricula e le audizione pubbliche dovrebbero conferire solennità e autorevolezza alle investiture. La differente durata dell’organo di controllo (la Fondazione) e dell’organo di gestione (il Consiglio), dovrebbero rafforzare l’autonomia del servizio pubblico dalle maggioranze e governi.
Un contratto di servizio sarà infine proposto dal Direttore Generale all’esame delle Camere, e sottoposto alla valutazione del Parlamento nelle forme che gli uffici di presidenza riterranno opportune.