Con il timbro finale della Corte Suprema di Cassazione l’inchiesta su Roma capitale, che ha riservato all’opinione pubblica nazionale sorprese piuttosto spiacevoli, ha stabilito per fortuna che i tre principali indiziati-Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno, Luca Odevaine, ex capo della polizia provinciale di Roma ed ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni in Campidoglio, nonché ex membro del tavolo di coordinamento nazionale al Viminale sull’accoglienza ai rifugiati), restano in carcere in attesa del processo.
E così chi ha ancora il coraggio di sostenere ancora che le associazioni del bel Paese sono forti e imbattibili nei loro luoghi e regioni di origine (l’elenco è noto: Palermo ma anche Catania da tempo e Reggio Calabria, Platì e San Luca nella sua provincia, secondo l’esperienza degli studiosi) ma a Roma si trovano in difficoltà per il concentrarsi nella capitale della repubblica di tutte le forze dell’ordine possibili e anche da magistrati come il dottor Pignatone, attuale procuratore della repubblica che proviene da una lunga esperienza di fronte alle imprese della mafia calabrese e siciliana, non si rendono ancora conto – e questo ci sembra grave – di quanto l’associazione calabrese altrimenti nota come ndrangheta è attiva e presente proprio nella capitale nazionale detta pure la città eterna dove c’era un ex filonazista come Massimo Carminati, oggi rinchiuso nel carcere di Parma, come peraltro Marcello Dell’Utri.
E proprio qui la banda di Buzzi e Carminati è stata individuata e catturata dalla squadra mobile di polizia della Capitale guidata da Renato Cortese e dal Gico della Guardia di Finanza. E conferma ancora una volta la centralità di Roma nella geografia criminale italiana. Accanto alla Lombardia, alla Liguria, all’Emilia Ro magna-regioni dove la presenza della ndrangheta è confermata ormai da moltissimi atti giudiziari-ecco rivelarsi con grande chiarezza molti mesi fa la cosca della capitale, autonoma e invisibile ma obbediente alle formule più antiche e tradizionali. Con riti di affiliazione celebrati, come è sempre stato nelle carceri. Gli arresti fatti subito rivelano almeno tre gruppi di ndrangheta e nascono da due inchieste coordinate e svolte negli ultimi due anni.
La prima, condotta dalla Squadra Mobile guidata da Renato Cortese, aveva messo a fuoco l’omicidio di Vincenzo Femia, ndranghetista di peso ucciso dalle parti della Chiesa del Divino Amore a porta Capena, vicino al Circo Massimo il 24 gennaio del 2013. La seconda inchiesta – in mano al Gico della Guardia di Finanza diretto dal colonnello Gerardo Mastrodomenico – era partito da una sofisticata intercettazione di una rete segreta di Black Berry usata da un gruppo criminale per commerciare centinaia di chili di cocaina. Un sistema pensato per essere impenetrabile e bucato grazie a un pincode finito nelle mani degli agenti di Guardia di Finanza. Insomma nel cuore di Roma-si è potuto accertare- ci sono tre gruppi ormai radicati e attivi da anni: i Pizzata-Pelle-Crisafi, i Crisafi Martelli e ancora i Rollero. Femia era considerato il referente dei Nirta di San Luca nella capitale. Attivo da molti anni nel traffico di cocaina si stacca troppo dalla casa madre e questo era già costata la vita a Carmelo Novella,il boss ucciso in un bar di San Vittore Olona nel 2008. A luglio poi arriva l’arresto di Gianni Cretarola, un dranghestista di peso con alle spalle una lunga sfilza di reati commessi in Liguria dove si era stabilito. Dopo pochi giorni inizia a collaborare. Gli inquirenti sequestrano un codice con segni a prima vista indecifrabili.
Ma il collaboratore mette in ordine i segni e svela la chiave di quello che sarà battezzato come “il codice di San Luca”. “Una bella mattina di sabato santo-incomincia il documento- allo spuntare e non spuntare del sole, passeggiando sulla riva del mare vidi una barca dove stavano tre vecchi marinai che mi chiesero che cosa stavo cercando. Io gli risposi sangue e onore. Mi dissero di seguirli e li avrei trovati. Navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare nel ventre dell’isola della Favignana:” Insomma una sorta di estratto della mitologia ndranghetistica e disegna l’organigramma preciso della ‘ndrina :Giovanni Pizzata era “capo-società” Massimiliano Sesito e lui il “mastro di giornata”. Insomma, una descrizione completa dell’associazione calabrese caratterizzata nello stesso tempo dall’arcaicità delle formule e dei riti usati ma, nello stesso tempo, da anni protesa alla massima modernità con l’acquisizione di miliardi di cocaina tramite il traffico degli stupefacenti e con un rapporto costante e diretto con i cartelli colombiani che diffondono a quella parte del mondo che può pagarlo un mare della preziosa polvere bianca. Ora ai giudici, dopo la definitiva conferma della Suprema Corte, è il caso di chiedere che emergano, con il tempo necessario naturalmente, la rivelazione della trama complessa e delle necessarie complicità che ha consegnato ai mafiosi- trafficanti le notevoli ricchezze sottratte allo Stato e ad altri privati capitati loro malgrado nelle grinfie di Mafia capitale.
L’opinione pubblica romana, che pure esiste ancora anche se è piuttosto ammaccata, ha bisogno di sapere che cosa si è celato per anni all’interno di una trama mafiosa e criminale che ha avuto in pugno affari importanti in un regime illegale e sottratto ad ogni critica.