L’obiettivo di vedere convocato un Tavolo di confronto dal sottosegretario Luca Lotti sull’indispensabile riforma dell’intero sistema della comunicazione (giornali, radio, tv, internet) sembra ormai a portata di mano. Ma la mobilitazione per il pluralismo e la libertà dell’informazione di “Meno Giornali, Meno Liberi” non si ferma. La campagna è stata lanciata a metà febbraio da nove sigle del settore.
“Il bilancio – spiega il coordinatore, Roberto Calari – è sicuramente positivo. Più che per i numeri, per la capacità di andare contro corrente e smuovere le coscienze su un tema – quello della difesa del pluralismo dell’informazione – che sta alla base del principio stesso di democrazia. Senza nascondersi che il vivace dibattito che ne è scaturito rappresenta uno spaccato di come vengono percepiti i contributi all’editoria nel nostro Paese”. O, per dirla con un tweet di Vittorio Zucconi rivolto a una delle attiviste: “Il sostegno pubblico alle piccole testate aiuterebbe la pluralità dell’informazione. Ma i Talebani non vogliono”.
E se invece la furia iconoclasta di questa forma di narrazione si stesse spegnendo, sotto la brezza della razionalità? Giuseppe Brescia del Movimento 5 Stelle ha finito per riconoscere una funzione pubblica al finanziamento dell’editoria, in particolare quella non profit. «Ci siamo accorti approfondendo la questione che la nostra posizione iniziale avrebbe favorito il contrario di quello che pensavamo», ha dichiarato a Lorenzo Misuraca del Garantista. E cioè? «La concentrazione nelle mani dei grandi gruppi editoriali, e la probabile scomparsa di tante piccole testate che costituiscono proprio il pluralismo».
Anche i più tenaci oppositori ammettono che ci sono 3mila posti di lavoro in bilico nelle 200 e più testate gestite da cooperative e associazioni non profit a rischio chiusura. La causa è il taglio immotivato di quanto è rimasto del contributo diretto all’editoria, dopo un decennio di pulizie. Sacrosante, certo, ma che stanno per giustiziare i legittimi beneficiari rimasti, stretti nell’angolo dalle banche e dai bilanci in scadenza a fine aprile. Sul campo si contano già le vittime potenziali e illustri, con tanto di mobilitazioni di giunte e consigli regionali nei confronti del presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Contro questa situazione in tanti hanno deciso di “metterci la faccia”. Letteralmente, sui giornali e sui social network. Gli ultimi in ordine cronologico sono la scrittrice Lidia Ravera, il funambolico affabulatore Alessandro Bergonzoni (nella foto), il comico Francesco Paolantoni, l’autore di teatro Luca De Filippo, la giornalista RAI Ilaria Capitani e l’ex nazionale di calcio Lorenzo Minotti. Persino la portavoce della decrescita felice Lucia Cuffaro ha posato in veste di testimonial, con incurante quanto apprezzabile ironia dell’ossimoro.
In un paio di mesi il blog attorno a cui ruota la mobilitazione (www.menogiornalimenoliberi.it) ha raccolto quasi 200 contributi. Ci sono i volti noti della cultura che hanno scelto di appoggiare la battaglia, come il direttore di Radio 3 Marino Sinibaldi, il direttore di Amnesty International Italia Gianni Rufini e gli scrittori Maurizio De Giovanni ed Eraldo Baldini. C’è il Sindaco della capitale del turismo romagnolo e quello del piccolo Comune piemontese, spaventato dall’idea di vedere chiudere l’unico mezzo che racconta il suo territorio. C’è la voce fortemente orientata al futuro di Gianni Riotta e il coro bipartisan della politica: fra i tanti Rosy Bindi, Nichi Vendola, Nunzia De Girolamo, Elio Palmizio, i candidati alle prossime elezioni in Puglia. E il mondo del sociale: i sindacati, Arci, Endas, la cooperazione, il Forum del Terzo Settore, la galassia cattolica.
Con pochi mezzi e molta fantasia la palla accartocciata di “Meno Giornali Meno Liberi” è riuscita a rimbalzare dalla carta ai social network, dalle radio alle televisioni locali. Il motore della campagna sono i giornalisti, i fotoreporter, i grafici e i poligrafici delle redazioni a rischio: più di 4mila le firme raccolte dalla petizione su Change.org, quasi altrettanti i fan della pagina Facebook. Ma nel silenzio tombale dei grandi mezzi di informazione, se si esclude Repubblica.it.