Quello che è accaduto giovedì mattina al Tribunale di Milano non è solo un dramma che ha colpito tre persone, i loro familiari, gli amici, i colleghi e che ha scioccato operatori e dipendenti che tra quelle aule lavorano quotidianamente. La pistola, gli spari, i morti, la lunga fuga in moto sono una ferita nel cuore di una città che, alla vigilia di un evento importante come l’Expo, si è scoperta tremendamente vulnerabile, incapace di proteggere chi lavora e compie ogni giorno il proprio dovere. La fragilità di un sito importante come il Tribunale di Milano ha disegnato in pochi istanti, nella percezione collettiva, l’immagine di un Paese che non riesce mai a prevenire, ad attrezzarsi prima che accada l’irreparabile. Ci troviamo ancora una volta a contare le vittime e a ragionare sui buchi di un sistema che avrebbe dovuto garantire la massima sicurezza e che invece ha fallito miseramente. Detto ciò, è però un altro l’aspetto che merita di essere rilevato e riguarda i commenti, le concezioni, le modalità di lettura che una parte degli italiani hanno utilizzato relativamente alla strage di Milano.
Sul web e sui social, in particolare sotto gli articoli pubblicati dalle varie testate giornalistiche, hanno trovato spazio opinioni che dedicavano indecenti plausi a quanto compiuto dall’assassino o incitamenti all’emulazione del suo gesto (mi chiedo sempre cosa ci stiano a fare i moderatori), nonché moltissime parole che, pur premettendo uno scontato sentimento di condanna, offrivano una sorta di comprensione dello stato d’animo del killer. Così capitava di leggere, più volte, i termini “crisi”, “disperato” o “disperazione”, come se le cause della follia omicida potessero riassumersi in categorie linguistiche che potessero in qualche modo allontanare le responsabilità individuali.
In pochi istanti, pertanto, un imprenditore imputato per bancarotta fraudolenta veniva trasformato in un imprenditore vessato dalla burocrazia, fallito semplicemente per i tremendi effetti della crisi, come se quella parolina “fraudolenta” non avesse alcun significato e non presupponesse un comportamento criminoso, una moralità degradata e una responsabilità individuale che poco hanno a che vedere con l’onestà e la disperazione. Nell’orgia di commenti che ha accompagnato le notizie sulla strage del Tribunale di Milano, che man mano si arricchivano di particolari sempre più efferati, è avvenuto un pericoloso spostamento della colpa dall’individuale al sistema istituzionale, alla burocrazia, alla legge, come se lo Stato e le sue regole fossero i colpevoli del massacro e non la crudeltà umana di un delinquente incallito e il suo sprezzo per le vite altrui.
Il magistrato ucciso nel suo ufficio, dove si recava ogni giorno per svolgere il proprio lavoro, è stato indebitamente trasformato nel rappresentante simbolico di una casta indistinta di ingiusti, di grigi burocrati, di disumani assuntori di decisioni, insensibili al vissuto e ai problemi della gente. E insieme a lui, in questa oscena rivisitazione dei fatti, di colpo tutti i funzionari in qualche maniera collegabili con l’applicazione delle regole sono diventati tout court emblema di un potere che vessa, stanca, umilia e che, dunque, per forza di cose, “prima o poi”, “spinge” o “costringe” qualcuno ad agire in questa maniera sconsiderata.
Questo agghiacciante e più o meno inconscio ribaltamento dei ruoli tra carnefici e vittime è qualcosa che sconcerta molto di più delle questioni legate alla sicurezza, perché se queste ultime sono potenzialmente risolvibili in breve tempo intervenendo con rigore su procedure e controlli, l’altro è un pericoloso virus culturale che sarà difficile debellare in fretta, soprattutto se si continua a pompare odio, ad alzare i toni e riempirli di panciuto qualunquismo. Perché dietro alle farneticanti parole di tanti cittadini/utenti ci sono cattivi maestri politici che stanno avvelenando il clima. Ha ragione Gherardo Colombo quando dice che gli attacchi indiscriminati alla magistratura rendono più possibili certi comportamenti, ma il punto è un altro, ancora più profondo e va oltre la questione legata ai soli magistrati e al ventaglio di offese che si trovano a subire in particolar modo dalla classe politica (a cominciare dal premier Renzi).
Leggendo i commenti in rete, ma anche, più semplicemente, parlando con le persone o ascoltando i loro discorsi nei bar o nei mezzi pubblici, ci si rende conto che in Italia è spaventosamente aumentata l’insofferenza nei confronti delle regole e si è sviluppato un odio fortissimo per le istituzioni, con conseguenze nefaste che però ricadono sui lavoratori di quelle stesse istituzioni, che altro non fanno che svolgere il proprio dovere e che, d’improvviso, diventano bersagli. Una minaccia che non riguarda solo la magistratura, ma anche enti ministeriali o altri enti pubblici, regionali o locali, nei quali si applica la legge e si cerca di far rispettare delle regole che sono state scritte dai legislatori e non certo da funzionari e dipendenti.
Le responsabilità di questo clima dannoso sono esclusivamente politiche, ossia di tutti coloro, leader o meno, che si lasciano andare a generalizzazioni, a etichette infamanti su intere categorie, che vengono presentate all’opinione pubblica come nemici, esclusivamente perché svolgono il loro lavoro secondo le norme che lo regolano. Ai cattivi maestri che al popolo affamato di capri espiatori indicano questo nemico, non importa minimamente che, agli eventuali fannulloni o agli arroganti o agli inetti presenti in una istituzione o in un ente, così come in qualsiasi altro gruppo umano, facciano da contraltare una grande maggioranza di persone oneste, serie, lavoratrici, dotate di senso del dovere e di umanità.
L’immagine stereotipata è l’unica che serve a sfogare gli istinti più feroci di un popolo che odia sempre più le regole, soprattutto se impediscono di far soldi facilmente. Un popolo che si dice disperato ma poi continua a votare e scegliere chi li dispera. Ecco perché non si possono accettare lezioni dagli sciacalli che fanno polemiche sulla sicurezza, quando poi sono il loro odio e la violenza delle proprie idee (che non danzano affatto, ma marciano a passo d’oca) a mettere quotidianamente a rischio quella sicurezza. Non la loro, ma purtroppo quella di tutti noi e di chi lavora con la paura di uscire la mattina e di non tornare più a casa la sera, consapevole di essere divenuto incredibilmente e incomprensibilmente un potenziale bersaglio.