Alla fine del 2013 scrivevo: ‘Tra poche ore inizierà il rito della celebrazione del nuovo anno e dei propositi che in gran parte rimarranno disattesi. Tra questi, nelle prime posizioni, si assesterà il tema dell’immigrazione e della revisione della Bossi – Fini. Il perché di tale pessimistica aspettativa è presto detto. Quanti di voi sanno che a Lampedusa, continuano gli sbarchi e che nell’ultimo si è sfiorata una nuova tragedia che non è diventata di dominio pubblico perché di morti, su 110 migranti, i soccorritori ne hanno contati ‘solo’ due? Pochi, pochissimi”.
I 700 morti di oggi, dopo i 366 del 3 ottobre a Lampedusa, sono la risposta a quel mio editoriale da facile Cassandra che ripugna le lacrime di coccodrillo che, ogni volta le cifre superano la decina, si trasformano in titoloni sui giornali e in una fiumana ipocrita e inutile di tweet.
Perché nessuno si sofferma a parlare, scrivere, twittare di quanto avviene quotidianamente nel Mediterraneo, sulle nostre e sulle coste libiche.
A nessuno interessa del ‘morto di giornata’ o del cadavere ritrovato sul bagnasciuga di qualche nostra spiaggia. E’ però lampante che, pur quando il mare non si punteggi di cadaveri, gli sbarchi dei clandestini continuino nell’indifferenza di tutti.
Nonostante l’attività di monitoraggio della Guardia costiera impegnata nelle operazioni di soccorso al largo della Sicilia, prosegua ininterrotta da settimane e registri interventi di varia entità, supplendo alle carenze della missione di Frontex ‘Triton’, la questione non è ancora tra i principali punti all’ordine del giorno dell’agenda del Governo, impegnato a privilegiare temi strettamente politici, come la legge elettorale, men che meno della Commissione europea che dovrebbe essere già riunita a Lampedusa per un Consiglio straordinario sull’immigrazione.
E invece, a parte parole di solidarietà all’Italia e annunci di cui non si è ancora vista attuazione, nulla!
Eppure l’emergenza è più pressante che mai. Ogni volta è una corsa contro il tempo: un elicottero che avvista un gommone sovraccarico di persone, un’imbarcazione militare o un mercantile che si avvicina a carrette del mare affollate di uomini, donne e bambini in balia delle onde e senza alcuna dotazioni di sicurezza.
La settimana scorsa il ‘carico’ recuperato più consistente, oltre 10 mila persone. Variegata la nazionalità dei naufraghi recuperati, per lo più provenienti da Ghana, Nigeria, Somalia, Sudan e Libia.
A loro è andata bene. Meno ai 700 annegati nel Canale di Sicilia nell’ultimo, e forse più grave di sempre, naufragio e a tanti altri disperati che, hanno raccontato i sopravvissuti, erano su un altro barcone ancor più malandato partito dalla Libia nelle stesse ore in cui loro prendevano il largo. Al momento non abbiamo riscontri visivi di questa ultima tragedia della disperazione perché non sono, ancora, riemersi i corpi.
Ma quanti muoiono senza lasciar traccia, come topi sorpresi dall’acqua in una stiva senza uscita? Senza possibilità di scampo… Quelle che dovrebbero essere ‘navi della speranza’, si trasformano quasi sempre in trappole mortali.
Continua così il flusso ininterrotto di un ‘traffico’ senza controllo che mette a repentaglio la vita di chi fugge dai luoghi di origine dove magari è in corso una guerra, una carestia o viene perpetrata costantemente la violazione dei diritti umani. Rischiare la vita in mare è l’unica opzione per molti, troppi, migranti.
Ma il dramma degli immigrati è anche il ‘nostro’ dramma?
Siamo tutti consapevoli che le ‘implicazioni’ dell’immigrazione clandestina tocchino poco gli italiani, o comunque la maggior parte di essi. Una soluzione ‘umana’ al problema non è una priorità del nostro Paese.
È e resta ‘semplicemente’ il dramma dei disperati che tentano invano di sbarcare sulle nostre spiagge in cerca di salvezza e di un tozzo di pane. E invece dovrebbe esserlo per ognuno di noi.
La tragedia dei clandestini, con l’inevitabile e oggettivo problema dell’accoglienza, ci piaccia o meno, è il dramma di un mondo diviso tra chi ha tutto e chi non ha niente.
Non possiamo più permetterci l’atto egoistico di chiudere gli occhi per non vedere, per non sapere che mentre in occidente viviamo dignitosamente nonostante la crisi, altrove c’è chi muore di fame o di guerra.