Ci lascia Giovanni Berlinguer e a me torna in mente la mattina di giugno di diversi anni fa in cui andammo a intervistarlo insieme a una collega per un inserto giovanile che usciva all’epoca, mensilmente, abbinato a “Il Riformista”.
Noi eravamo giovanissimi, Berlinguer già anziano e ancora parlamentare europeo: lo andammo a trovare a casa sua e rimanemmo lì per circa un’ora, in un confronto ideale e politico che lo vide attentissimo a ogni nostra curiosità, a ogni nostra idea, a ogni nostro dubbio, come se stesse imparando anche lui da due ragazzi che avrebbero potuto essere tranquillamente i suoi nipoti, e in effetti era così.
Perché Giovanni Berlinguer, al pari di Ingrao, è sempre stato un uomo di straordinaria cultura ma assai restio a salire in cattedra, benché per molti anni abbia insegnato in varie università e nonostante avesse tanto da trasmettere alle nuove generazioni.
Nello sguardo, nelle parole, nelle riflessioni miti e profonde del professor Berlinguer era facile scrutare le ragioni della sinistra e il suo complesso corso storico, le sue speranze e le sue contraddizioni, le sue sconfitte e le sue affermazioni di lungo periodo, spesso invisibili, quasi mai riconosciute, assai poco accettate da una società costantemente incline al conformismo, al conservatorismo, alla massificazione delle idee e persino delle abitudini elettorali.
Berlinguer, invece, era un uomo dallo sguardo lontano, dal pensiero fervido, un uomo poliedrico in cui non era difficile scorgere i tratti del fratello, come se quel giorno, su quel maledetto palco di Padova, gli avesse idealmente passato il testimone. Non aveva lo stesso carisma, la stessa capacità di trascinare le folle, non era certo un personaggio mediatico, ma aveva comunque una presa magnetica sui suoi interlocutori, anche per via di quello spirito di servizio che lo indusse a quasi ottant’anni ad accettare la candidatura del Correntone dei DS al congresso di Pesaro, ben sapendo di perdere ma ugualmente convinto di dover lottare. Ottenne un onorevole 34,1 per cento, il riconoscimento e la stima di tutti e diede prova di serietà, passione civile, attaccamento al partito, disinteresse personale e anche coraggio, mentre già la sinistra tendeva a sbandare, a degenerare, a berlusconizzarsi e, infine, a perdersi, omologandosi nei modi, nei toni, nei linguaggi, fino a perdere quell’anima colta e, al tempo stesso, popolare che per decenni era stata il suo marchio di fabbrica.
Deputato per tre legislature, senatore per due, europarlamentare a oltre ottant’anni, simbolo e punto di riferimento per quanti avevano scelto di non arrendersi alla “fine della storia” teorizzata da Fukuyama, Berlinguer non ha mai aderito al PD: si è fermato insieme a Mussi, a Salvi e a quanti già allora, mentre noi ci lasciavamo coinvolgere con un entusiasmo prossimo all’incoscienza, ci facevano presente che il vero rischio non fosse perdere quanto perdersi, smarrirsi nel gorgo di una storia senza valori, senza orizzonti, senza prospettive, non innervata da quell’idea di cambiamento della società in chiave progressista senza la quale la sinistra semplicemente non ha senso.
Credevamo che si sbagliasse, lo speravamo di cuore, poi è andata come è andata e la lezione del professor Berlinguer si è rivelata più viva e attuale che mai, soprattutto oggi che molti di noi in quella casa comune si sentono asfissiati, desiderosi di andare altrove, di recuperare quel senso, quelle ragioni e quei princìpi senza i quali, oltre alla sinistra, è la politica stessa a divenire inutile.
Ci lascia Giovanni Berlinguer e se ne va un mondo: dalla Sardegna degli anni Venti-Trenta in cui lui ed Enrico furono ragazzi ai convinti sentimenti anti-fascisti, fino all’adesione al PCI, agli anni di Togliatti e Longo e alla felice stagione della segreteria di Enrico, il comunista più amato, il più stimato, il più rimpianto per quel suo costante rifiuto di adeguarsi al cinismo di una politica che andava sempre più degenerando, trasformandosi in mero affarismo, in correntismo senza valori, in una barbara e disumana occupazione di poltrone che le ha progressivamente tolto ogni respiro, sottraendole l’anima e il contatto con la gente.
Si chiedeva Pier Paolo Pasolini se qualcuno avrebbe mai avuto il coraggio di pesare, sulla bilancia della storia, non solo ciò che abbiamo guadagnato grazie al progresso ma anche tutto ciò che abbiamo perso. Ci chiediamo, a nostra volta, se la sinistra avrà mai il coraggio di fare i conti con se stessa, di riflettere su ciò che ha guadagnato snaturandosi, il potere, e su ciò che ha perso, la propria base, i deboli, gli ultimi, gli esclusi, la propria ragion d’essere e quel minimo di sentimento senza il quale tanto varrebbe sostituire gli uomini con dei robot.
Tutto questo, da uomo di scienza, Berlinguer lo sapeva bene e lo diceva, senza preoccuparsi del consenso, senza dare retta a quanti, cinicamente, consigliano tuttora a chi ancora resiste di adeguarsi e lasciar perdere perché la battaglia è perduta e la storia ha imboccato ormai un’altra strada. Berlinguer, al contrario, ci ha insegnato che le vere sfide da affrontare, le più belle, le più emozionanti, non sono quelle vinte in partenza ma quelle da cui si ha la certezza di uscire sconfitti. Battersi non per un posto ma per una visione, crederci con tutta l’anima e accettare la sconfitta come un fatto naturale ma mai ineluttabile. Questo è stato Giovanni Berlinguer, questa è la sua storia: una vicenda umana, politica, culturale e sentimentale che è stato un privilegio poter conoscere da vicino e raccontare e che sarà bene conservare e trasmettere alle future generazioni.