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Europa: la libertà d’espressione tra ipocrisia e abitudine

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La libertà d’espressione è un diritto riconosciuto dall’Unione europea. Tuttavia, quest’assunto altro non è che un’ipotesi radicata nelle nostre abitudini mentali, come testimoniano le difficoltà incontrate al momento dell’applicazione pratica. Nel primo trimestre del 2015, per esempio, più di un terzo dei giornalisti assassinati nel mondo provenivano da due paesi europei (Francia e Ucraina). Le reazioni emotive che hanno attraversato l’Europa nei giorni della tragedia di Charlie Hebdo, hanno rappresentato sì un momento di reazione, ma hanno anche dato luogo a situazioni piuttosto equivoche, soprattutto per la presenza dei capi di stato e di governo alla immensa manifestazione di Parigi.

Vedendo Angela Merkel –un esempio come tanti- qualcuno ha ricordato che in Germania la blasfemia è ancora cosiderato un reato; così come in Danimarca, Spagna, Olanda, Polonia e Grecia. Tutti questi paesi si difendono sostenendo che tali leggi contro i “blasfemi” non vengono applicate. Non sembra un buon argomento di discussione per fronteggiare quel blocco di stati asiatici (Arabia Saudita, iran e altri) che, da qualche anno –pericolosamente- tentanto di convertire la blasfemia in un reato universalmente riconosciuto dall’ONU. In Irlanda, il cui primo ministro, Enda Kenny, era presente a Parigi, non solo si mantinene una menzione costituzionale specifica, ma addirittura nel 2010 è entrata in vigore una nuova legge contro la blasfemia.
A Parigi, ovviamente, c’era anche Mariano Rajoy, il cui governo ha promosso alcune riforme del codice penale e ha accentuato il controllo sulla televiosone pubblica da parte dei partiti spagnoli. L’istituto de Prensa Internacional, nel suo ultimo comunicato stampa, segnala che queste “nuove norme giuridiche potenzialmente restrittive, tra cui la Ley de seguridad Ciudadana” rappresentano una restrizione alla libertà d’espressione.

E cosa faceva a Parigi Victor Orban? Il presidente ungherese ha ulteriormente inasprito il controllo sulle televisioni.. Orban, sebbene si trovi a capo di un paese dell’UE, imita il modello di Vladimir Putin in Russia, dove, scongiurata la chiusura del Museo e del Centro Andrei Sakharov come ai vecchi tempi, è stata ugualmente imposta una multa da 300.000 rubli (5.000 euro) per non essersi registrato come “agente straniero”. In questo modello sperimentale, un giorno si annuncia la registrazione obbligatoria per i bloggers (Turchia, Ungheria), un altro viene approvato una legge che regolamenti le ONG considerate “poco patriottiche” (Russia, Ungheria).
A Parigi, inoltre, vi era Ahmet Davutoglu, primo ministro turco, che aveva aveva parlato di “provocazione” da parte della nuova redazione di Charlie Hebdo, a proposito della nuova edizione del settimanale uscita dopo l’attentato. nella sua edizione. Parliamo di uno dei paesi candidato ad entrare nell’UE. In Turchia si contano ancora decine e decine di giornalisti in galera, (hanno addirittura superato il centinaio), e dove si ordinò il blocco di vari siti internet e del quotidiano Cumhuriyet, accusati di aver riportato alcune caricature pubblicate da Charlie.

Subito dopo i fatti di Parigi, in quella storica “marche républicaine”, eravamo vari rappresentati dei giornalisti europei con lo striscione “Nous sommes Charlie”. Insieme a me marciava Franco Siddi, rappresentante della Federazione Nazionale della Stampa Italiana. In quella occasione fu lui a parlarmi dei problemi italiani e il 23 di marzoci riunimmo a Milano, insieme a una resposabile dell’ OSCE, per discutere dell’annunciata riforma di legge contro la diffamazione. Il Tribunale Europeo ha infatti chiesto all’Italia di abolire il carcere per i reati di diffamazione. In Spagna, questa possibilità è ancora aperta, anche se la giustizia è solita tutelare la libertà d’espressione a scapito dei querelanti. In Italia, accade lo stesso; però non si può ignorare che –nel 2014- ci sono stati 462 casi di giornalisti minacciati di diffamazione. E benché la proposta dell’ UE rappresenti un passo verso l’eliminazione dell’incarcerazione, il rischio di un poteziale aumento delle multe è tangibile. Gabriele Dossena, Presidente dell’Odinde dei giornalisti della Lombardia,, ci ha ricordato altri progetti restrittivi precedenti :“Da vent’anni si tenta di porre il freno al diritto di cronaca”. Berlusconi aveva pianificato riforme di legge per limitare la circolazione di libere informazioni finanziarie e giudiziarie che potessero pregiudicare la sua figura politica e i propri affari personali.

Dalle Torri Gemelle, e talvolta anche prima, come ad esempio nel Regno unito durante gli anni più duri del conflitto con l’Irlanda del Nord, esiste un riflesso abitudinario che consiste nell’approvare le leggi “urgenti” con il pretesto della sicurezza. Il modello attuale è il Patriot Act statunitense, del quale si parla ultimamente in Francia. Nel Regno Unito e in Spagna, si discute di ciò che gli attivisti che si battono a favore della libertà d’espressione hanno denunciato come “Ley Mordaza”.
In Macedonia, la condanna a 2 anni di carcere del giornalista d’inchiesta Tomislav Kezarovski, è un avviso per tutti i paesi dell’ Est europeo ancora insicuri sul proprio futuro. Gvozden Srecko Flego, relatore del Consiglio Europeo, ha citato in un intervento la Russia, l’Ucraina, la Turchia e l’Azerbaijan come casi particolarmente preoccupanti. Come rimedio, ha sostenuto la necessità di “organizzare dibattiti annuali (…) con la partecipazione delle organizzazioni dei giornalisti e dei mezzi di comunicazione” nei rispettivi parlamenti nazionali di ciascuno stato. Flego ha inoltre avanzato un’altra ipotesi assunta già da altri organismi internazionali: creare una “Media Identity Card”, con la quale i proprietari dei mass media debbano identificarsi in quanto tali dinnanzi all’opinione pubblica. Una proposta che ci suggerisce il problema (o tabù) dell’oligopolio mediatico, uno dei chiari freni al pluralismo d’espressione. Per la libertà d’espressione, si tratta di un ostacolo grave al pari dello spionaggio digitale denunciato da Snowden.

A Parigi, Le Nouvel Observateur aveva messo in evidenza la contraddittoria presenza dei rappresentanti di Egitto, Arabia Saudita, Gabon, Russia, Giordania, Israele e Palestina, tutti orgogliosi di aver colpito nel lorto territorio i difensori della libertà d’espressione.
E se non vi è possibilità di avvicinare tutti i paesi, nemmeno quell’interni all’ UE, difendere la libertà d’espressione come valore europeo implica che forse non ci è più permesso di manifestare con coloro che Le Nouvel Obs ha chiamato “ipocriti della marcia repubblicana”. Per quanto riguarda la libertà d’espressione, l’Europa deve mantenere le distanze tanto da questi “ipocriti” (più o meno lontani), quanto dal rischio di ridurre le nostre libertà in cambio di maggior sicurezza. Su questi temi, sarà il caso di non abbassare la guardia anche questo XXI secolo.


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