L’ex presidente del Consiglio Enrico Letta ha annunciato da Fabio Fazio che si dimetterà da parlamentare: “voglio vivere del mio lavoro come ho vissuto per un po’ di anni della politica”, ha spiegato. Non gli ho mai lesinato critiche nei suoi mesi da capo del Governo, non lo rimpiangerò ora. Semmai, è curioso che quelli che prima lo difendevano a spada tratta, poi l’abbiano abbandonato e adesso, a quell’annuncio, facciano spallucce o cerchino argomenti di discredito.
Però, c’è da dire che prima di Letta s’è dimesso Massimo Bray, che con lui ha condiviso l’esperienza governativa, e come lui dice che ci sono molti luoghi e modi per dare il proprio contributo alla vita democratica di una società. Che è giusto, ovviamente, ma che non è sufficiente a spiegare quello che accade. Se per il primo si può ipotizzare la frustrazione personale per come sono andate le cose, per il secondo non tanto. Entrambe le scelte, invece, paiono quasi denunciare un limite delle istituzioni parlamentari quale ambito della rappresentanza.
Il già ministro della Cultura motiva il suo abbandono del seggio alla Camera con la possibilità di “maggiori responsabilità” nell’Istituto della Enciclopedia Italiana, il precedente inquilino di Palazzo Chigi con il prossimo incarico alla guida della scuola di affari internazionali dell’Istituto parigino di studi politici Sciences Po; nessuno dei due incarichi costituisce un impedimento formale, e di certo, quantomeno, quello dei due protagonisti di queste vicende è uno stile diverso, diciamo così, da quanto visto in altre circostanze.
Nonostante quelle argomentazioni apparentemente valide, entrambi sembrano quasi denunciare un limite della loro azione parlamentare: se in quel contesto non si conta più, o sempre meno, per le proprie idee e per quello che si può dare, tanto vale abbandonarlo e cercare gli altri e molti “luoghi in cui […] dare un contributo alla vita democratica”, come scrive Bray nella sua lettera di dimissioni dalla Camera.
Tornano in mente le parole di Norberto Bobbio, nel dicembre del 1967, in risposta a Pietro Nenni che ne chiedeva una candidatura al Senato per il Psi: “Non posso permettermi proprio ora di partecipare ad una gara politica che mi distoglierebbe dal mio lavoro liberamente assunto […]. Rimango fedele al partito, ma nell’unico posto […] in cui credo di poter svolgere un’opera non inutile”. E forse, anche quelle di Leonardo Sciascia, quando, nel 1983, alla fine del suo mandato annunciava l’abbandono della politica attiva: “So di non essere stato un deputato esemplare. Invidiavo i miei colleghi […] che avevano un’attività parlamentare perfetta, precisa. Io non sono riuscito a tanto. Ho fatto quello che ho potuto. Ora torno a scrivere”.
Il tono delle parole di Bray e Letta ricorda da vicino quelle dello scrittore siciliano e del professore torinese. Ma c’è di più. In quelle di oggi, nelle loro distonie che ne segnano l’andamento, sembra scorgersi il limite dell’attuale stato della rappresentatività e delle sedi a quella deputate, che assumono le caratteristiche di votifici, in cui si conta solo se, contandosi, si è determinanti nei numeri che si hanno o che si possono determinare.
Insomma, l’unico valore sembra essere diventato quello della contabilità dura delle matematiche dinamiche di corrente e di appartenenza, come se il peso di ciò che si dice o si pensa non fosse insito o meno in sé stesso, bensì esclusivamente nella consistenza delle divisioni a suo supporto. E francamente, in quest’ottica, come dar torto a chi decide di fare altro?