Di Franco Mostacci
ROMA – Anche per quest’anno si è consumato il rito del Def, il documento con il quale si fa il punto sulla situazione economica attuale e sulle intenzioni del Governo per gli anni a venire.
Il Def dovrà, però, fare i conti con la realtà e le cifre appena diffuse, come spesso accade, sembrano destinate a essere pesantemente riviste. Lo scorso anno, ad esempio, lo stesso governo Renzi prevedeva una crescita di +0,8% che, a consuntivo, divenne -0,4%.
L’interpretazione dei numeri è complicata dal fatto che viene presentato sia il quadro macroeconomico tendenziale a legislazione vigente, ovvero ciò che accadrebbe se il Governo non effettuasse alcun intervento di politica fiscale, sia il quadro programmatico, da qualcuno definito come il “libro dei sogni”.
Secondo il quadro tendenziale la crescita cumulata dell’economia da qui al 2019 sarà del 5,5% (il 13,9% in termini nominali); in termini programmatici sarà, invece del 6% (il 14% in termini nominali). La differenza è dovuta agli effetti sperati delle riforme che il Governo sta mettendo in piedi.
Per il 2015 è attesa una crescita dello 0,7%, in gran parte dovuta al traino dei fattori esogeni (+0,3% il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, +0,2% il calo del prezzo del petrolio, +0,1% la diminuzione dei tassi di interesse anche in conseguenza dell’operazione di Quantitative Easing avviata dalla BCE). Rispetto alla Nota di aggiornamento dello scorso ottobre, in cui si prefigurava una crescita dello 0,6% senza aiuti dall’esterno, lo stato di salute dell’economia italiana è quindi peggiorato, spostando ancora in avanti l’asticella dell’agognata ripresa.
Come al solito, l’attenzione principale del Def è rivolta ai conti pubblici, con l’indebitamento che non deve superare il 3% del Pil, l’indebitamento strutturale (al netto del ciclo economico e delle misure una tantum) che deve convergere verso il pareggio di bilancio e il debito pubblico che, prima o poi, dovrà iniziare a scendere secondo i ritmi previsti nel Fiscal Compact.
L’indebitamento per il 2015 è previsto al 2,5% del Pil, con le spese sostanzialmente invariate solo grazie al risparmio di quasi 6 miliardi di euro di interessi e le entrate tributarie che dovrebbero invece crescere di quasi 10 miliardi di euro. La differenza rispetto all’indebitamento programmatico, fissato al 2,6%, corrisponde al “tesoretto” di 1,6 miliardi di euro che il Governo vuole utilizzare per un nuovo bonus da erogare ai ceti meno abbienti, presumibilmente in corrispondenza della tornata elettorale di fine maggio, facendo il paio con quanto già accaduto lo scorso anno.
Il debito pubblico, sempre secondo il quadro tendenziale, dovrebbe aumentare nel 2015 di 35 miliardi, 6 in meno di quelli previsti di indebitamento. Per raggiungere l’ambizioso obiettivo si farà ricorso alla vendita di asset pubblici o al reperimento di altre risorse finanziarie.
Il Governo, come sempre ottimista, spera che la situazione economica nel corso del 2015 migliorerà, ma se i conti verso la fine dell’anno non dovessero tornare, farà ancora in tempo a varare una manovra correttiva, con maggiori tasse o tagli di servizi.
Nonostante il Def non sia il luogo dove si decidono i loro destini, i dipendenti pubblici, il cui contratto non è stato più rinnovato dal 2010, hanno ben poco di che rallegrarsi. Il Governo, infatti, è impegnato a reperire le risorse per scongiurare l’attivazione della clausola di salvaguardia che prevede, a partire dal 2016, un aumento delle aliquote Iva agevolate. Nessun riferimento, invece, alla necessità di risparmiare alcuni miliardi da destinare al rinnovo del contratto del pubblico impiego per il triennio 2016-2018. Eppure da qui alla scrittura della prossima Legge di stabilità mancano solo 6 mesi e sono in molti a temere che i lavoratori della pubblica amministrazione resteranno al palo per un altro triennio.
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